by redazione | 13 Marzo 2014 11:35
C’è un giudice a Varese. Si chiama Giuseppe Battarino e ha disposto che si proceda all’imputazione di due carabinieri e sei agenti di polizia per omicidio preterintenzionale e arresto illegale per la morte di Giuseppe Uva. I fatti risalgono all’oramai lontano 2008. Un altro giudice, Agostino Abate, nella sua veste di pubblico ministero aveva invece chiesto l’archiviazione del caso. Contro di lui l’ex ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare per come erano state condotte le indagini. Non era più chiaro infatti chi era la vittima, chi l’accusato, chi i testimoni. Era stata prodotta una confusione di ruoli a difesa di una verità pre-esistente alla giustizia. Probabilmente anche nel caso Uva si riuscirà ad andare a processo per le violenze avvenute in una camera di sicurezza delle forze dell’ordine.
C’è un altro giudice, questa volta a Bari. Si chiama Giovanni Anglana. Ha riaperto le indagini sulla morte di Carlo Saturno nel carcere di Bari avvenuta più o meno tre anni fa. Anche in questo caso c’era stato un pm che aveva chiesto l’archiviazione. Nel caso del giovane Carlo la storia era ancora più complessa. Qualche anno prima, quando da ragazzino era finito nel carcere minorile di Lecce, aveva denunciato alcuni poliziotti penitenziari per le violenze efferate subite. In quel caso il pubblico ministero aveva proceduto. Si era arrivati al dibattimento. Saturno si era costituito coraggiosamente parte civile. Tornato in carcere da maggiorenne a Bari pare si sia suicidato in una cella di isolamento. In quegli stesi giorni il processo per le violenze subite a Lecce si estingue per prescrizione. Ora il giudice chiede che si indaghi ancora. Alcune ferite al viso, al capo e all’orecchio destro non lo hanno convinto. La causa della morte torna in discussione. Queste sono due storie diverse dove chi deve indagare sceglie la via burocratica dell’archiviazione e chi deve giudicare chiede che si indaghi meglio. Viene da dire che qualcosa non torna nella giustizia italiana. Allora proviamo a redigere un decalogo a cui affidarsi affinché nei casi di violenza istituzionale ci si possa quanto meno approssimare alla verità storica.
Si introduca subito il delitto di tortura nel codice penale in modo che fatti gravi non siano trattati giudizialmente come minimali o secondari.
Si prevedano tempi non brevi di prescrizione. I processi per casi di questo genere sono difficili, lunghi. Richiedono dunque indagini meticolose che rompano il muro dell’omertà.
I Ministeri competenti avviino procedimenti disciplinari nei confronti dei presunti responsabili senza attendere gli esiti lunghi dei processi penali.
La prescrizione giudiziaria non deve mai essere valutata in sede disciplinare quale causa giustificativa di una decisione di assoluzione e di permanenza in servizio.
Si approvi un codice etico di condotta come quello suggerito dall’Onu per chiunque operi nei settori dell’ordine pubblico e della sicurezza.
Presso le Procure si istituiscano sezioni specializzate in fatti di questo genere che usino nelle indagini personale inter-forza di polizia il quale a sua volta sia adeguatamente esperto e formato.
Non si unifichino i processi per le violenze con quello per calunnia nei confronti della persona che ha sporto denuncia. L’unificazione dei procedimenti rende indistinguibili vittime e carnefici.
Una volta arrivati a dibattimento lo Stato si costituisca parte civile in modo da sottrarre le mele marce alla difesa pregiudiziale del corpo di appartenenza.
Si proteggano i testimoni che hanno il coraggio di raccontare quanto visto. Se i testimoni sono a loro volta detenuti li si trattenga in luoghi del tutto sicuri dove non entrino mai in contatto con le persone sotto accusa.
Lo Stato interrompa le relazioni sindacali con quelle organizzazioni che offrono tutela legale a coloro i quali si macchiano di delitti di questo genere.
Si preveda un obbligo di visita medica.
* presidente di Antigone
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