Ultimatum alla Crimea: «Arrendetevi» Ma poi il governo russo frena

by redazione | 4 Marzo 2014 8:51

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Francesco Battistini, Corriere della Sera
BACHISARAY (Crimea, Ucraina) — Stanotte si dorme in moschea. Turni di quindici uomini: dieci dentro, cinque fuori. Telefonini e animi sempre carichi. Le donne portano la zuppa di cavolo nero, il velo non è in testa ma triste e di paura sugli occhi. A dare una mano arriva anche Kamil Samigullin, il gran capo di tutti i tatari di Russia: «Sappiamo che per noi la vita andrà peggio, in Crimea…». Il minareto di Bachisaray è la torre di guardia della fortezza e l’imam si agita molto: «Portate quattro pacchi d’acqua!», «facciamo l’elenco di chi partecipa alle ronde»… Il bazar intorno è un deserto dove i tatari, stavolta, sono loro a controllare che non arrivi il nemico.

Tutta la Crimea oggi è così: aspetta. La minoranza musulmana e gli ucraini filoccidentali, spaventati, che qualche russofono cominci a devastare i minbar (pulpiti delle moschee) e il buon senso. La maggioranza filorussa, sollevata, che a fine mese il referendum proclami di fatto la secessione da Kiev. Una cinquantina di soldati della Flotta sono due chilometri in là, tutt’intorno a una piccola trincea ucraina che s’ostina a non cedere le armi. Attesa lunga: circondano la base dell’artiglieria da tre giorni, la prendono per i nervi, e dentro prendono tempo perché a Kiev non si prendono la briga d’una decisione, combattere o ritirarsi. Sparare, no: nessuno a parole lo vuole. Il governo ucraino butta lì che dal comandante della Flotta russa è stato dato un ultimatum, per Bachisaray come per Capo Fiolent, dov’è l’intelligence della Marina: se gli ultimi soldati non s’arrendono all’alba di martedì, sarà «tempesta». Un penultimatum, in verità: «Non abbiamo nessun piano d’attacco», è la smentita che arriva da Mosca. «Non vogliamo la guerra — dice il viceministro Grigory Karasin — con quest’operazione abbiamo solo voluto ridimensionare molte persone che stanno a Kiev». «La parola guerra, riferita all’Ucraina, è inaccettabile — fa la pacifista Valentina Matviyenko, capocommissione della Duma, come se i soldati dispiegati fossero un’invenzione — noi siamo nazioni sorelle, noi siamo il mondo slavo!». Ma da Washington, l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Vitaly Churkin fa sapere che è stato Yanukovich, con «una lettera a Putin», a chiedere l’intervento militare.
Aspettare, snerva. Che cosa farà la Grande Sorella Russia, che cosa non fa la Piccola Russia ucraina. Ai distributori di benzina e nei centri commerciali, si fa fila per la scorta. I tassisti evitano la strada del consolato russo di Sinferopoli, perché la folla non lascia passare: tutti a leggere le bacheche, comprensive d’agiografie di Putin, che spiegano come ottenere un passaporto russo. C’è un ingresso privilegiato per i Berkut, le squadre speciali di Yanukovich che hanno sparato a Maidan, facendo quei 95 morti che il ministro russo Ivan Lavrov, adesso, paragona ai ribelli jihadisti in Siria: «Si avvisa che i Berkut potranno avere la cittadinanza in tempi più brevi». Ci vuole pazienza pure nelle banche: la gente si mette in coda d’ora buona e ci sta tanto, perché hanno limitato a 112 euro i prelievi bancomat e nessuno si fida, tutti rivogliono i loro soldi prima del «disastro» annunciato dal premier ucraino, Arsenyi Yatseniuk. In piazza Lenin, il quotidiano happening filorusso issa un cartello contro «Abama» (con la a) che vuole uccidere la Crimea: oggi arriva a Kiev il segretario di Stato americano, John Kerry, una linea rossa da tirare, ed è possibile veda anche Yulia Tymoshenko di rientro da Mosca. Yatseniuk ripeterà che «non lasceremo a nessuno il permesso di prendersi la Crimea» e che «non saranno ammessi soldati russi a Est». Yulia ridirà che «occupando la Crimea, la Russia ha dichiarato guerra anche a Stati Uniti e Gran Bretagna, garanti della nostra sicurezza». Kerry dovrebbe chiedere, oltre al ritiro delle truppe russe dalla Crimea, che osservatori internazionali siano dispiegati in tutta il Paese.
C’è poco altro da pretendere. Quello di Putin sarà anche «un errore che pagherà», come scrive il Washington Post , però il Cremlino ha ormai «il controllo operativo completo» della penisola: lo confida al New York Times un diplomatico Usa. Arrivano le navi dal Baltico. Le unità da sbarco della Kaliningrad, della Minsk, dell’Olenigorski Gorniak, della San Giorgio. Truppe russe compaiono sullo stretto di Kerk e «rimarranno per tutelare i diritti fondamentali», fa sapere il ministro Lavrov. Quando i caccia violano due volte lo spazio aereo e arrivano quasi allo scontro in cielo con un Su-27 ucraino, parla ancora Lavrov «È necessario proteggere gli interessi di tutti gli ucraini». Il dialogo col Cremlino è complicato, si propone come mediatore perfino Mikhail Khodorkovski, l’oligarca «perdonato» da Putin dopo dieci anni di Siberia: non sembra destinato a successo. Sulla piazza Lenin, di fronte ai marò che pattugliano il palazzo del governo, un piccolo gazebo raccoglie firme per l’Armata popolare di Crimea. «Siamo già 500», dice Oleg Klimchuk, leader della ong Crimea russa. S’avvicina una donna coi sacchi della spesa: «Posso iscrivermi?». No, le dicono: «È pericoloso».

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