Il summit dei silenzi
L’ipocrisia, è noto, regna sovrana in tutti i summit arabi. Tuttavia il 35esimo vertice della Lega araba che si chiude oggi in Kuwait è destinato a superare ogni limite. Non solo i partecipanti hanno deciso di nascondere la crisi, senza precedenti, nei rapporti tra i petromonarchi del Golfo – Arabia saudita, Emirati e Bahrain hanno ritirato gli ambasciatori da Doha in segno di protesta per l’appoggio, politico e finanziario, che il Qatar fornisce al movimento della Fratellanza Islamica – ma hanno anche taciuto sulla pena di morte di massa inflitta lunedì dai giudici egiziani di Minya contro 529 (presunti) Fratelli colpevoli dell’uccisione di un poliziotto durante le proteste seguite al colpo di stato militare dello scorso 3 luglio (nei mesi seguenti le forze di sicurezza egiziane hanno ucciso circa 1400 dimostranti). Sentenza che il 28 aprile quasi certamente avrà una replica persino più ampia. Quel giorno la corte di Minya emetterà una seconda sentenza nei confronti di altri 683 Fratelli, veri e presunti, tra i quali la guida spirituale della confraternita, Mohamed Badie. 1200 condanne a morte sulle quali presidenti, primi ministri, re e principi arabi tacciono. Resta muto persino il Qatar che più di chiunque altro aveva appoggiato il presidente egiziano deposto Mohammed Morsi, per non aggravare i contrasti con la rivale Riyadh.
Così il summit arabo in Kuwait si chiuderà con la prevista risoluzione incentrata sulla guerra civile siriana. L’Arabia saudita ieri ha accusato la comunità internazionale di aver “tradito” i ribelli siriani, rifiutando loro le armi necessarie per resistere alla superiorità delle forze armate governative. Il rappresentante saudita, il principe ereditario Salman bin Abdulaziz al Saud, ha detto che per porre fine al conflitto occorre «cambiare l’equilibrio delle forze sul terreno», ossia rovesciare con la forza il presidente siriano Bashar Assad. Il principe ereditario inoltre ha chiesto che alla Coalizione delle opposizioni siriane sia offerto, in seno alla Lega Araba, il seggio di Damasco. La rappresentanza siriana è stata sospesa nel novembre 2011 ma il seggio non è stato ancora affidato all’opposizione a causa dell’opposizione di Iraq, Libano e Algeria. In ogni caso ieri il presidente della Coalizione delle opposizioni, Ahmad Jarba, un uomo di Riyadh, ha ugualmente potuto parlare in apertura del vertice, di fatto a nome della Siria, malgrado la progressiva perdita di credibilità dello stesso Jarba. Un sito siriano vicino opposizione, Zaman al Wasl, riferiva qualche giorno fa che tanti attivisti anti-Assad chiedono a Jarba di farsi da parte subito e lo accusano di aver approfittato della sua posizione per arricchirsi. Forse si tratta di accuse infondate ma non è insignificante che un dissidente storico come Michel Kilo, leader del Blocco Democratico della Coalizione, abbia confermato allo stesso sito che Jarba non riuscirà ad allungare di un anno il suo mandato.
Proclamata prima del vertice “questione di primo piano” poi relegata in fondo all’agenda, l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi è affrontata dai leader arabi nella solita maniera: promesse vaghe di soluzioni politiche e annunci di nuovi aiuti economici. Secondo le indiscrezioni, la risoluzione finale del vertice in Kuwait includerà ancora una volta l’offerta a Israele del Piano arabo del 2002 – ritiro alle linee del 4 giugno 1967 in cambio della pace con tutti i Paesi arabi – al quale Tel Aviv sino ad oggi non ha mai risposto. Altre voci riferiscono che al presidente palestinese Abu Mazen saranno promessi 100 milioni di dollari al mese per puntellare i bilanci in rosso dell’Anp.
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