by redazione | 14 Marzo 2014 11:18
Dalla caduta del muro di Berlino, la transizione del modello di difesa dell’Italia (al pari del sistema politico) è perennamente incompiuta, rapsodica, contraddittoria. Da 20 anni ad oggi si sono alternati documenti di vario tipo (studi, dossier, programmi, proposte di legge, ecc.) che hanno tentato di ridisegnare il modello di difesa italiano sulla base delle nuove strategie della Nato — dopo la fine del bipolarismo — e del cambiamento delle relazioni internazionali del nostro paese e dei suoi impegni con le missioni all’estero, enormemente incrementate a partire dagli anni ’90.
Per molto tempo le nostre forze armate sono state prigioniere di alti livelli di burocrazia, di inefficienza, di sovradimensionamento funzionale, di sprechi (anche le gerachie delle forze armate sono una specie di casta) che hanno caratterizzato un livello alto delle spese militari, tendenzialmente e concretamente in crescita in questi ultimi vent’anni. E non solo per le spese alte del personale e del funzionamento ordinario del sistema delle Forze Armate, ma anche per una serie di investimenti nei sistemi d’arma, in alcuni casi inutili e sovradimensionati rispetto alle esigenze: e che servono, come per gli F35, solo a fare la guerra e qualche affare a Finmeccanica. Un esempio paradigmatico è quello della portaerei Cavour, per la quale abbiamo speso 1 miliardo e 700 milioni di euro, rimasta inutilizzata e che risponde solo a ragioni di status e di prestigio nazionale. L’Italia non poteva non avere una portaerei per non sfigurare davanti ai suoi alleati europei e della Nato.
Con la legge delega 244 del 2012 di riordino dello strumento della difesa (in pratica uno degli ultimi provvedimenti del governo Monti, ad opera del ministro della Difesa, l’ammiraglio Di Paola) siamo entrati — con la successiva emanazione dei decreti attuativi avvenuti in questa legislatura — in una fase nuova. Assistiamo così a un salto di qualità adel nostro sistema della Difesa, il cui senso è riassunto in uno scambio tra riduzione del personale e investimenti dei risparmi ottenuti nei sistemi d’arma, a partire dagli F35, dalle fregate Fremm e dai sommergibili U-212. Si parla di difesa per modo di dire, perché il ruolo delle nostre Forze Armate — accanto al tradizionale ruolo di difesa della patria, da contestualizzare dentro la costruzione della casa comune europea — è offensivo, tutto rivolto all’esterno («fuori area», in gergo) con la partecipazione alle missioni militari internazionali. Che in parte, come in Libano, sono “missioni di pace” e in parte — come in Iraq e in Afghanistan — sono missioni di lotta al terrorismo internazionale, di controllo del territorio e in definitiva hanno una natura bellica. E il quadro con cui le Forze Armate si confrontano è quello delle nuove minacce globali — dalla lotta al terrorismo ai rischi derivanti dalle nuove aree di tensioni in Medio Oriente, in Africa, nell’Europa dell’Est — rispetto alle quali il ruolo dell’Italia è completamente subalterno alla Nato e agli interessi americani, come anche in questo caso la vicenda degli F35 ci incarica di dimostrare.
Recentemente si sono conclusi i lavori di una indagine conoscitiva (originata dalle mozioni della Camera di giugno del 2013 sugli F35) della Commissione Difesa sui sistemi d’arma che ha sostanzialmente confermato la scelta del riarmo da una parte e dall’altra l’opzione della riduzione (ancora modesta) degli organici, pachidermici e ormai non funzionali alle nuove esigenze delle Forze Armate italiane. La tendenza è quella di una ulteriorie professionalizzazione della struttura, di sempre maggiori investimenti nei sistemi d’arma, di una maggiore integrazione nella Nato dentro il quadro di interventi rapidi di gestione delle aree di crisi. E la centralità concreta della Nato fa venire meno il processo di integrazione europea — anche sul piano militare — in una direzione autonoma e «sufficiente» con l’obiettivo della costruzione della sicurezza comune con un ruolo più significativo dell’Osce e delle Nazioni Unite.
Si tratterebbe di voltare pagina con convinzione. L’Italia potrebbe tranquillamente ridurre di un buon 20–30% le sue spese militari e ridurre di almeno altri 50 mila unità gli organici delle Forze Armate. Dovrebbe rinunciare agli F35 (aerei da guerra) e ad altri sistemi d’arma, che niente hanno a che fare con un’idea di difesa «sufficiente». Dovrebbe rinunciare all’interventismo militare all’estero e fare la scelta convinta dell’Onu con una azione costante della prevenzione dei conflitti e della costruzione della pace. Dovrebbe finalmente attuare l’articolo 11 della Costituzione. Eppure il premier Renzi, che ha fatto la sua tesi di laurea su Giorgio La Pira, queste cose dovrebbe saperle. Ma forse se l’è dimenticate da tempo.
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