by redazione | 17 Marzo 2014 10:06
KIEV — Da sola la Crimea non ci può stare. Non ci sono sorgenti di acqua potabile, né centrali elettriche. Se il governo di Kiev decidesse di interrompere le forniture di gas, tre famiglie su quattro resterebbero al freddo e non potrebbero cucinare. La penisola di Yalta e Sebastopoli dipende dal resto del Paese. Esiste anche una cifra che il ministero delle Finanze del nuovo governo ucraino usa come strumento di propaganda: 794 milioni di euro. Sono i soldi che ogni anno la capitale passa alla Repubblica per ripianare il bilancio. Spiccioli per Vladimir Putin? Forse no, visto che il bilancio russo è già in deficit per 6,5 miliardi di euro. O forse sì, proprio perché quel miliardo scarso di spese ulteriori garantirebbe al Cremlino il pieno controllo della penisola. Putin non pensa ai 6 milioni di turisti all’anno (su una popolazione di 2 milioni) e neanche ai vini pregiati di Yalta. Cose che scaldano il cuore e rendono il 60% della ricchezza prodotta dal sistema locale. Ma sono attività che bastano a mala pena per sopravvivere, risorse poco nutrienti: il reddito pro capite di un cittadino della Repubblica separatista è pari al 66% della media ucraina e all’80% di quella russa.
In realtà è inutile cercare un qualche tesoro nascosto nei dati e nelle statistiche ufficiali. Non è certo per qualche filiera agroalimentare o per l’industria della villeggiatura che dal Cremlino è arrivato l’ordine di mostrare i kalashnikov. L’importanza della Crimea è legata alla sua posizione. In gioco non ci sono gli interessi della Russia di oggi, ma quelli di domani. Militari, innanzitutto. La base navale di Sebastopoli potrebbe essere potenziata fino a diventare l’avamposto russo più avanzato nel fianco orientale della Nato. Sul Mar Nero si affacciano diversi partner dell’Alleanza atlantica: Romania, Bulgaria e, soprattutto, Turchia. Altri analisti suggeriscono di seguire la scia del petrolio.
Al largo delle coste assolate, sono già attivi campi offshore per la produzione di gas. I volumi sono ancora poco significativi, ma la potenzialità ha suscitato l’attenzione delle multinazionali, come le americane ExxonMobil e Chevron, l’olandese Royal Dutch Shell e persino la Petrochina. Forse alla fine le esplorazioni non daranno risultati apprezzabili. Ma può anche darsi il contrario e allora il ruolo di grande esportatore della Russia potrebbe uscirne ridimensionato. A meno che le compagnie straniere non si trovino all’improvviso, grazie al referendum e ai soldati camuffati, a trattare con Mosca e non più con Kiev. Quanto vale in termini economici questa scommessa? Impossibile azzardare dei numeri, ma certo vale tanto. Come pure potrebbe contare un’altra ipotesi, avanzata nei giorni scorsi dalla stampa inglese. Putin starebbe addirittura meditando di deviare il percorso del nuovo oleodotto South Stream, facendolo passare attraverso la Crimea e l’Ucraina sud occidentale, anziché nella profondità del Mar Nero e da qui alla Bulgaria. Risparmio stimato: più di 14 miliardi di euro. Tutte queste spinte, queste ambizioni potrebbero trasformarsi in progetti di sviluppo multilaterali, con profitto per i diversi Paesi. In fondo i rapporti tra Russia, Ucraina ed Europa si sono retti su uno schema di mutualità che ha funzionato per 23 anni, a cominciare naturalmente dall’energia. Putin pensa che questo meccanismo si sia rotto con la rivoluzione di Maidan e con la cacciata del suo sodale e garante Viktor Yanukovich. Ora cerca una rivincita anche economica in Crimea.
Giuseppe Sarcina
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