Quando il governo Aznar agitò l’ombra del complotto
In Italia sappiamo cosa siano depistaggi e menzogne di Stato. E quindi non facciamo fatica a capire il comportamento del governo di José María Aznar subito dopo gli attentati dell’11 marzo del 2004. Dire la verità sulla matrice delle bombe avrebbe significato ridare fiato alle voci pacifiste risuonate l’anno precedente nelle oceaniche manifestazioni per le strade dell’intera Spagna contro la guerra in Iraq. Voci che furono ignorate da una classe dirigente asservita a George W. Bush, e in preda a una pericolosa sindrome di onnipotenza, ben esemplificata dalla fastosa cerimonia nuziale all’Escorial della figlia del premier, con Silvio Berlusconi come testimone.
Il coraggio civile dei cittadini che, incuranti dei divieti, manifestarono alla vigilia delle elezioni del 14 marzo, fu determinante per lo smascheramento del grande inganno ordito dal potere della cinica destra spagnola. Il responso delle urne favorevole al Partito socialista (Psoe) di José Luis Zapatero restituì l’onore all’ufficio di governante di una democrazia che, negli anni di Aznar, si era indebolita a colpi di attacchi alla libertà di stampa, all’indipendenza della magistratura, alle autonomie regionali. Sino all’abominio della «missione» in Iraq in spregio alla legalità internazionale e alla volontà popolare.
Con la svolta politica, tuttavia, non cessarono le bugie. Dai banchi dell’opposizione, un Partido popular (Pp) traumatizzato dall’inattesa perdita del potere alimentò dubbi sulla ricostruzione dei fatti che, con il passare dei mesi, gli investigatori andavano stabilendo. Aznar e soci non esitarono a insinuare l’esistenza di un complotto ai loro danni, concepito dagli avversari socialisti con il concorso di Eta e settori deviati della polizia. Un delirio paranoico all’altezza di quello che ispirò l’azione dei golpisti fascisti del ’36, che si consideravano milizie di una «crociata» combattuta contro il disegno «giudeo-massonico e bolscevico» di scristianizzazione della Spagna.A fare da grancassa al Pp, gli organi di «informazione» affini, guidati da personaggi nei confronti dei quali gli inventori della nostrana «macchina del fango» appaiono delle educande: su tutti, il direttore di El Mundo Pedro J. Ramírez e l’opinionista della radio della Conferenza episcopale (Cope) Federico Jiménez Losantos. Per anni, prime pagine e infuocati interventi pubblici hanno diffuso l’idea che le prove utilizzate nel processo — conclusosi nel luglio 2008 con le condanne di 17 militanti islamisti — fossero state manipolate da poliziotti e magistrati affini al Psoe. La pressione mediatica è stata così brutale che la moglie di uno degli agenti accusati di avere agito in modo oscuro, Rodolfo Ruiz, cadde in una profonda depressione e si suicidò.Impossibile, in un contesto del genere, una «memoria condivisa». I settori più reazionari della destra iberica, mediaticamente molto robusti, utilizzarono la teoria cospirativa sugli attentati per delegittimare moralmente la vittoria di Zapatero, leader tutt’altro che estremista, ma inviso ai clerico-fascisti in doppiopetto per le sue scelte in materia di matrimoni omosessuali, per il (timido) recupero della memoria storica dell’antifranchismo, per l’assenso a una maggiore autonomia della Catalogna e per il tentativo (fallito) di trattativa con l’Eta alla ricerca di una fine negoziata della lotta armata indipendentista basca.Triste «effetto collaterale» della violenta campagna politico-mediatica è stata la divisione nel seno del collettivo dei parenti delle vittime delle bombe di Madrid. Una parte finì per farsi strumento dei sostenitori del complotto, trasformandosi quasi in un’organizzazione collaterale del Pp, costringendone un’altra a fondare una nuova associazione di familiari di vittime. Che divenne anch’essa, immancabilmente, obiettivo degli strali della stampa di destra, in un’esibizione di volgarità e cinismo senza paragoni.
Ciò che si è mosso attorno al massacro di dieci anni fa, è una vicenda che sembra fatta apposta per dare ragione a chi vede la Spagna irrimediabilmente destinata alla divisione fratricida, dove la passione del conflitto politico assume il carattere schmittiano dell’irresolubile lotta «amico-nemico». Una lettura «essenzialista», e per tanto, assai discutibile. Ma anche ammettendo che possa esserci del vero, ieri è forse giunto il primo segnale in controtendenza: le associazioni delle vittime hanno per la prima volta manifestato insieme. Le menzogne dei teorici del complotto, finalmente, cominciano a trovare meno orecchie disposte ad ascoltarle
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