by redazione | 26 Marzo 2014 12:14
Si è molto parlato della spending review e delle proposte rese pubbliche negli ultimi giorni. In realtà la confusione sotto il cielo è massima, ma la situazione non è certo ottima. Né i commenti, né le dichiarazioni dei protagonisti, chiariscono di cosa si tratti in realtà. Prima di tutto occorrerebbe definire quali sono gli obiettivi della spending review, perché ciascun diverso obiettivo richiederebbe differenti azioni e può rivelarsi in contraddizione con gli altri.
Si tratta di razionalizzare o rendere più efficiente la spesa pubblica? Questo obiettivo non richiede tagli alla spesa, ma una sua riallocazione in rapporto ai bisogni e agli obiettivi sociali ed economici che si vogliono perseguire. Se si prevedono risparmi sostanziosi, bisogna essere attenti ad evitare che essi non vadano a peggiorare l’efficacia dell’azione in questo senso.
Si tratta di attenersi al famigerato parametro del 3% del rapporto deficit-Pil? In questo caso, apparentemente, basterebbe tagliare indiscriminatamente la spesa. Qui però il pericolo è che l’effetto sui redditi e sull’attività economica sia talmente negativo da provocare una forte diminuzione delle entrate dello stato, rispetto a quanto si sarebbe verificato altrimenti, a causa della diminuzione sia delle imposte dirette che di quelle indirette, fino a vanificare gli effetti della diminuzione della spesa.
C’è da notare infine che in realtà l’obiettivo del rapporto deficit-Pil al 3% è anacronistico, come direbbe Renzi, purtroppo perché in realtà il nostro paese è tenuto a rispettare il fiscal compact, che prevede di azzerare il deficit pubblico. Abbiamo infatti molto improvvidamente sottoscritto questi patti e ancor più improvvidamente modificato nel senso dell’obbligo del pareggio di bilancio la nostra Costituzione, anteponendo, come spesso accade, le convenienze politiche immediate ad una minima preoccupazione per le conseguenze future, peraltro facilmente prevedibili.
Si vuole invece migliorare il rapporto debito-Pil (altro punto fondamentale del fiscal compact al quale le autorità europee in questi ultimi tempi ci richiamano ossessivamente)?
In questo caso le cose si complicano enormemente. Infatti il miglioramento di questo rapporto, nelle attuali condizioni dell’Italia, si può avere solo sperando in un miracolo che faccia ripartire autonomamente la crescita economica (ad esempio: tutti i cinesi si mettono di colpo a comprare scarpe o mobili prodotti in Italia o si trovano immensi giacimenti di petrolio in Basilicata).
Ma se l’obiettivo è questo rapporto, come si fa a parlare di spending review senza conoscere i moltiplicatori fiscali delle diverse forme di spesa pubblica? Il moltiplicatore ci dice di quanto varia il reddito al variare della spesa pubblica. Ad esempio, la spesa sociale dello stato ha un effetto sul reddito, cioè un moltiplicatore diverso della spesa per armamenti. Ai fini del rapporto debito-Pil la spending review dovrebbe quindi riallocare le spese dai settori con un basso moltiplicatore a quelli con un moltiplicatore più alto.
Viceversa, per quanto questo possa apparire paradossale e a causa dell’alto rapporto debito-Pil, il semplice contenimento della spesa avrebbe un effetto negativo. Poniamo che il moltiplicatore fiscale sia uguale in media ad 1 (ma è un ipotesi al ribasso). Un risparmio della spesa pubblica pari a dieci farebbe tendenzialmente diminuire il Pil nella stessa misura del debito. Ma il debito pubblico in Italia è sopra al 130% del Pil e questo significa che il debito diminuisce meno che proporzionalmente rispetto allo stesso Pil (per esempio: 120 diviso 90 è uguale a 1,33, quindi più alto di 130 diviso 100). Il rapporto debito Pil peggiora anziché migliorare.
Tra le proposte che sono circolate in questi giorni una è, in questo quadro, particolarmente dannosa. Si tratta della proposta di diminuire l’impiego pubblico di ulteriori 85.000 unità. Alla base di questa proposta c’è una di quelle affermazioni comuni che non hanno fondamento reale: in Italia ci sarebbero troppi dipendenti pubblici. In realtà i dipendenti pubblici in Italia, in rapporto alla forza lavoro, sono meno che negli Stati uniti, in Gran Bretagna e nell’Unione europea, come ci dice l’Ocse.
Anche a prescindere dalle considerazioni sul moltiplicatore, poi, la proposta è particolarmente priva di fondamento per ragioni contabili. Il Pil della pubblica amministrazione, poiché non è composto da beni o servizi che hanno un prezzo di mercato, si misura in base al costo dei fattori (compreso il costo del lavoro). Quindi è sicuro che quando si risparmia sul costo del lavoro diminuendo gli occupati nel settore pubblico, per definizione e senza considerare gli effetti della variazione del reddito e dei consumi dei soggetti interessati, cioè l’effetto moltiplicatore, anche il Pil deve diminuire in prima battuta dello stesso ammontare. Per le ragioni sopra esposte, il rapporto debito — Pil peggiora.
Al di là dell’incongruenza della proposta rispetto all’esigenza riguardante il rapporto debito-Pil, in una situazione in cui l’obiettivo prioritario su tutti gli altri dovrebbe essere quello di stimolare l’occupazione si avanzano invece proposte che hanno l’effetto immediato di deprimerla, come è stato già fatto aumentando l’età pensionabile. In realtà nella drammatica situazione attuale occorrerebbe stimolare l’occupazione anche attraverso un piano di assunzioni pubbliche, tanto più che questo, come è implicito nel ragionamento svolto sopra, avrebbe anche un effetto favorevole sul rapporto debito-Pil.
In un recente articolo su queste pagine, Guido Viale si richiama alla critica marxiana all’ideologia degli economisti ortodossi e, aggiungerei, sempre richiamandoci a Marx, al fatto che molta economia che circola, in particolare nel nostro paese, è «economia volgare». È ora di mettere al centro le persone in carne ed ossa piuttosto che i famigerati «mercati», anche per evitare di proporre ricette impossibili. Infatti, come dicevano i latini, ad impossibilia nemo tenetur.
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