Precariopoli da ieri è legge

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L’orrore è arri­vato in Gaz­zetta uffi­ciale. Il decreto Poletti su con­tratti a ter­mine e appren­di­stato è legge: ser­vi­ranno ora 60 giorni per appro­varlo in Par­la­mento, e dopo le pro­te­ste di Cgil e Fiom dell’ultima set­ti­mana, si appro­fon­di­sce il disa­gio den­tro il Pd. Se la riforma è stata scritta dall’emiliano Giu­liano Poletti – con le indi­ca­zioni di Renzi, va da sé – il testo non piace ai gio­vani demo­cra­tici emi­liani, che par­lano di «por­cata paz­ze­sca». Ste­fano Fas­sina minac­cia di non votarlo se non verrà cam­biato, men­tre il pre­si­dente della Com­mis­sione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, chiede correzioni.

Il decreto pro­lunga da 12 a 36 mesi il periodo in cui si potrà stare a ter­mine nella stessa azienda senza alcuna cau­sale, senza più pause e con all’interno la pos­si­bi­lità di otto pro­ro­ghe. È come dire che la cau­sale è ormai stata can­cel­lata dal governo per tutti i con­tratti a ter­mine, visto che dopo i 36 mesi scat­te­rebbe il tempo inde­ter­mi­nato. La per­cen­tuale dei lavo­ra­tori a ter­mine nell’azienda potrà essere al mas­simo del 20%.

Stra­volti anche i con­tratti a ter­mine, che non solo per­dono l’obbligatorietà della for­ma­zione pub­blica, ma anche il prin­ci­pio per cui per assu­mere nuovi appren­di­sti l’impresa avrebbe dovuto almeno sta­bi­liz­zarne una percentuale.

Il governo spa­lanca così le porte del super­mar­ket della pre­ca­rietà, ormai senza limiti: viene di fatto can­cel­lato il tempo inde­ter­mi­nato, che ormai nes­suna azienda avrà più né l’obbligo né l’incentivo ad accen­dere. L’apprendista diventa un lavo­ra­tore low cost usa e getta. Se si somma il tutto alle dichia­ra­zioni di ieri della mini­stra allo Svi­luppo Fede­rica Guidi sull’articolo 18, com­pren­diamo come que­sto ese­cu­tivo voglia riag­gan­ciare lo svi­luppo can­cel­lando le tutele.

La defi­ni­zione più bella del testo è dei gio­vani dem emi­liani. Il segre­ta­tio Vini­cio Zanetti è straor­di­na­ria­mente effi­cace con un post sui social: «Non vi pare una por­cata paz­ze­sca – chiede ai com­pa­gni di par­tito – l’introduzione del con­tratto a tempo deter­mi­nato senza cau­sale fino a tre anni, rin­no­va­bile otto volte nell’arco dei 36 mesi? Avevo capito che si sarebbe intro­dotto un con­tratto unico a tempo inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti, non l’ennesimo con­tratto a zero tutele».

Nel Pd, evi­den­te­mente, sanno che al duo Renzi-Poletti è riu­scito quanto non era riu­scito a Mau­ri­zio Sac­coni e alla stessa legge 30: una prima for­mu­la­zione avrebbe infatti voluto can­cel­lare le cau­sali, cosa che in parte è riu­scito a fare il governo Monti, ma solo per 12 mesi.

Ste­fano Fas­sina è peren­to­rio: «Il decreto sul lavoro ema­nato dal governo è più grave dell’abolizione dell’articolo 18 – dice l’ex vice­mi­ni­stro all’Economia – Forse vi sono delle tec­ni­ca­lità che non a tutti sono chiare ma sarebbe meno grave l’eliminazione dell’articolo 18, almeno ci sarebbe un con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato sep­pure inter­rom­pi­bile in qua­lun­que momento. Siamo di fronte a una regres­sione del mer­cato del lavoro – aggiunge l’esponente della mino­ranza Pd, uno dei mag­giori avver­sari interni di Renzi – Il decreto aumenta in modo pesan­tis­simo la pre­ca­rietà, non è una riforma e per quanto mi riguarda deve essere modi­fi­cato, altri­menti non è votabile».

L’ex mini­stro del Lavoro Damiano con­ferma di star lavo­rando nel Pd per far pas­sare delle cor­re­zioni (il testo sarà da mer­co­ledì all’esame della Com­mis­sione Lavoro della Camera). «Nel decreto c’è un eccesso di libe­ra­liz­za­zione – spiega – e que­sto con­tratto can­ni­ba­lizza tutti gli altri, ren­dendo super­fluo quello di inse­ri­mento a tutele cre­scenti pre­vi­sto nella delega. Elenco i punti cri­tici: 1) la durata di 36 mesi senza cau­sale, troppo lunga. 2) il rin­novo per ben 8 volte. Biso­gna met­tere una durata minima di cia­scun con­tratto: dico per esem­pio 9 mesi, e saremmo così a mas­simo 4 proroghe».

Male, per Damiano, anche la parte sugli appren­di­sti: «La discre­zio­na­lità sull’offerta for­ma­tiva pub­blica non va e ci espone a rischi di una pro­ce­dura di infra­zione euro­pea, per­ché per le norme Ue è obbli­ga­to­ria. Trovo poi sba­gliato che non sia pre­vi­sta una per­cen­tuale di sta­bi­liz­za­zione. Apprezzo invece la decon­tri­bu­zione dei con­tratti di solidarietà».

Alza le bar­ri­cate con­tro ogni modi­fica Sac­coni (Ncd), con un tweet: «Il decreto non si tocca. A meno che non si voglia can­cel­lare l’articolo 18». Rete imprese apprezza la riforma, come anche la Con­fin­du­stria: Gior­gio Squinzi chiede che «non venga distorto in Parlamento».

Men­tre la Cisl apprezza, e la Uil chiede una cor­re­zione sul numero delle pro­ro­ghe, Fiom e Cgil ieri sono tor­nate a richie­dere una modi­fica inci­siva: «Il decreto rende i lavo­ra­tori ricat­ta­bili: l’impresa potrà non pro­ro­garli senza for­nire moti­va­zioni», dice Serena Sor­ren­tino (Cgil).

Il mini­stro del Lavoro Giu­liano Poletti annun­cia che è dispo­sto a cam­biare il testo, se non fun­zio­nerà: «La veri­fica la fac­ciamo a sei mesi», dice, anche se poi aggiunge che «per vedere i risul­tati delle riforme del lavoro ci vor­ranno 3–4 anni».


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