Il pacco atlantico

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Il primo passo sarà l’ulteriore raf­for­za­mento della Nato. L’alleanza mili­tare che, sotto comando Usa, ha inglo­bato nel 1999–2009 tutti i paesi dell’ex Patto di Var­sa­via, tre dell’ex Urss e due ex repub­bli­che della Jugo­sla­via (distrutta dai nazio­na­li­smi ma anche dalla Nato con la guerra); che ha spo­stato le sue basi e forze mili­tari, com­prese quelle a capa­cità nucleare, sem­pre più a ridosso della Rus­sia, arman­dole di uno «scudo anti­mis­sili», stru­mento non di difesa ma di offesa; che è pene­trata per ora con il «solo» par­te­na­riato atlan­tico in Ucraina che, certo, non è stato sol­tanto a guar­dare i moti nazio­na­li­sti e anti­russi di piazza Maj­dan a Kiev e alla prova di forza vio­lenta della seconda metà di feb­braio che hanno pro­vo­cato la pro­te­sta filo­russa e spinto la Cri­mea a sepa­rarsi e unirsi alla Fede­ra­zione russa.

Il pre­si­dente ame­ri­cano colto di sor­presa? Eppure Maj­dan è stato il pal­co­sce­nico della destra repub­bli­cana ame­ri­cana, per non par­lare dello spet­ta­colo del segre­ta­rio di stato John Kerry che incita la pro­te­sta nazio­na­li­sta ben prima della scelta di refe­ren­dum della Crimea.

Ora, come rispo­sta agli avve­ni­menti ucraini, saranno inten­si­fi­cate le eser­ci­ta­zioni con­giunte che, uni­ta­mente all’uso di tec­no­lo­gie mili­tari sem­pre più avan­zate, per­met­te­ranno alla Nato di man­te­nere «un’alta pron­tezza ope­ra­tiva ed effi­ca­cia nel com­bat­ti­mento». Verrà allo stesso tempo poten­ziata la «Forza di rispo­sta della Nato», pronta ad essere pro­iet­tata in qual­siasi momento in qual­siasi tea­tro bellico.

E soprat­tutto «cam­bia il qua­dro geo­po­li­tico», annun­cia il segre­ta­rio gene­rale della Nato Rasmus­sen: «Gli alleati devono raf­for­zare i loro legami eco­no­mici e mili­tari di fronte all’aggressione mili­tare russa con­tro l’Ucraina». Si pro­spetta dun­que non solo un raf­for­za­mento mili­tare della Nato per­ché accre­sca «la pron­tezza ope­ra­tiva ed effi­ca­cia nel com­bat­ti­mento», ma allo stesso tempo una «Nato eco­no­mica», tra­mite «l’accordo di libero scam­bio Usa-Ue» fun­zio­nale al sistema geo­po­li­tico occi­den­tale domi­nato dagli Stati uniti.

Una Nato che, riba­di­sce Washing­ton, «resterà una alleanza nucleare». Signi­fi­ca­tivo è che la visita di Obama in Europa si sia aperta con il terzo Sum­mit sulla sicu­rezza nucleare. Una crea­zione dello stesso Obama (pre­mio Nobel per la pace sulla parola), per «met­tere in con­di­zione di sicu­rezza il mate­riale nucleare e pre­ve­nire così il ter­ro­ri­smo nucleare».

Que­sto nobile intento per­se­guono gli Stati uniti, che hanno circa 8000 testate nucleari, tra cui 2150 pronte al lan­cio, alle quali si aggiun­gono le 500 fran­cesi e bri­tan­ni­che, por­tando il totale Nato a oltre 2600 testate pronte al lan­cio, a fronte delle circa 1800 russe. Poten­ziale ora accre­sciuto dalla for­ni­tura del Giap­pone agli Usa di oltre 300 kg di plu­to­nio e una grossa quan­tità di ura­nio arric­chito adatti alla fab­bri­ca­zione di armi nucleari, cui si aggiun­gono 20 kg da parte dell’Italia. Par­te­cipa al sum­mit sulla «sicu­rezza nucleare» anche Israele – l’unica potenza nucleare in Medio Oriente (non ade­rente al Trat­tato di non-proliferazione) – che pos­siede fino a 300 testate e pro­duce tanto plu­to­nio da fab­bri­care ogni anno 10–15 bombe tipo quella di Naga­saki. Il pre­si­dente Obama ha con­tri­buito alla «sicu­rezza nucleare» dell’Europa, ordi­nando che circa 200 bombe B-61 schie­rate in Ger­ma­nia, Ita­lia, Bel­gio, Olanda e Tur­chia (vio­lando il Trat­tato di non-proliferazione), siano sosti­tuite con nuove bombe nucleari B61-12 a guida di pre­ci­sione, pro­get­tate in par­ti­co­lare per il cac­cia F-35, com­prese quelle anti-bunker per distrug­gere i cen­tri di comando in un first strike nucleare.

La stra­te­gia di Washing­ton ha un duplice scopo. Da un lato, ridi­men­sio­nare la Rus­sia, che ha rilan­ciato la sua poli­tica estera (v. il ruolo svolto in Siria) e si è riav­vi­ci­nata alla Cina, creando una poten­ziale alleanza in grado di con­trap­porsi alla super­po­tenza sta­tu­ni­tense. Dall’altro, ali­men­tare in Europa uno stato di ten­sione che per­metta agli Usa di man­te­nere tra­mite la Nato la loro lea­der­ship sugli alleati, con­si­de­rati in base a una dif­fe­rente scala di valori: con il governo tede­sco Washing­ton tratta per la spar­ti­zione di aree di influenza, con quello ita­liano («tra i nostri amici più cari al mondo») si limita a pac­che sulle spalle sapendo di poter otte­nere ciò che vuole.

Con­tem­po­ra­nea­mente Obama preme sugli alleati euro­pei per­ché ridu­cano le impor­ta­zioni di gas e petro­lio russo. Obiet­tivo non facile. L’Unione euro­pea dipende per circa un terzo dalle for­ni­ture ener­ge­ti­che russe: Ger­ma­nia e Ita­lia per il 30%, Sve­zia e Roma­nia per il 45%, Fin­lan­dia e Repub­blica Ceca per il 75%, Polo­nia e Litua­nia per oltre il 90%. L’amministrazione Obama, scrive il New York Times, per­se­gue una «stra­te­gia aggres­siva» che mira a ridurre le for­ni­ture ener­ge­ti­che russe all’Europa: essa pre­vede che la Exxon­Mo­bil e altre com­pa­gnie sta­tu­ni­tensi for­ni­scano cre­scenti quan­tità di gas all’Europa, sfrut­tando i gia­ci­menti medio­rien­tali, afri­cani e altri, com­presi quelli sta­tu­ni­tensi la cui pro­du­zione è aumen­tata per­met­tendo agli Usa di espor­tare gas liquefatto.

In tale qua­dro rien­tra la «guerra dei gasdotti»: obiet­tivo sta­tu­ni­tense è bloc­care il Nord Stream, che porta nell’Unione euro­pea il gas russo attra­verso il Mar Bal­tico, e impe­dire la rea­liz­za­zione del South Stream, che lo por­te­rebbe nella Ue attra­verso il Mar Nero. Ambe­due aggi­rano l’Ucraina, attra­verso cui passa oggi il grosso del gas russo, e sono rea­liz­zati da con­sorzi gui­dati dalla Gaz­prom di cui fanno parte com­pa­gnie euro­pee. Paolo Sca­roni, numero uno dell’Eni, con­sa­pe­vole anche del disa­stro pro­vo­cato con la guerra in Libia — (della quale Obama non ha il corag­gio di par­lare dopo i fatti di Ben­gasi dell’11 set­tem­bre 2012 quando venne ucciso l’ambasciatore ame­ri­cano Chris Ste­vens) — ha avver­tito il governo che, se venisse bloc­cato il pro­getto South Stream, l’Italia per­de­rebbe ric­chi con­tratti, come l’appalto da 2 miliardi di euro che la Sai­pem si è aggiu­di­cata per la costru­zione del tratto sot­to­ma­rino. Biso­gna però fare i conti con le pres­sioni Usa.

Il pre­si­dente Obama si dedica comun­que anche a opere di bene. Con papa Fran­ce­sco par­lerà domani del «comune impe­gno nel com­bat­tere la povertà e la cre­scente ine­gua­glianza». Eppure durante la sua ammi­ni­stra­zione, secondo le stime uffi­ciali del Us Cen­sus Bureau, il tasso di povertà negli Usa è salito dal 12% al 15% (oltre 46 milioni di poveri) e quello infan­tile dal 18% al 22%, men­tre i super-ricchi (lo 0,01% della popo­la­zione) hanno qua­dru­pli­cato il loro red­dito. Obama «rin­gra­zierà il Papa anche per i suoi appelli per la pace». Lui, pre­si­dene di uno stato la cui spesa per armi e guerre equi­vale a circa la metà di quella mondiale.


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