Mafia. Le cosche non sono immortali

by redazione | 21 Marzo 2014 8:34

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«La mafia ha vinto», scri­veva Save­rio Lodato nell’omonimo libro-intervista a Tom­maso Buscetta nel 1999. La mafia non ha vinto rispon­dono quin­dici anni dopo Gio­vanni Fian­daca e Sal­va­tore Lupo nel volume pub­bli­cato da Laterza (Bari, pp.163, euro 12). Lo sguardo del giu­ri­sta e quello dello sto­rico. E il labi­rinto della sup­po­sta trat­ta­tiva Stato-mafia nei primi anni Novanta. Un intrico di vie e di pas­saggi stretti in cui non è facile orientarsi.In que­sto bel pam­phlet un mae­stro del giu­spe­na­li­smo, Fian­daca, e un insi­gne sto­rico, Lupo, si cimen­tano in una tesi ardita: l’impianto accu­sa­to­rio del pool di magi­strati di Palermo non regge, le azioni impu­tate dall’accusa non costi­tui­scono reato, e Cosa Nostra non è stata sal­vata.
La pub­bli­ci­stica sulla mate­ria è ampia. Il libro di Fian­daca e Lupo arriva dopo Una lunga trat­ta­tiva di Gio­vanni Fasa­nella, Il patto di Nicola Biondo e Sifrido Ranucci e Io so di Anto­nio Ingroia. Su quest’ultimo si appun­tano le atten­zioni degli autori che smon­tano pezzo per pezzo le tesi dell’ex magi­strato, e la rela­tiva inchie­sta deno­mi­nata Sistemi cri­mi­nali. Un’indagine che «qual­che difetto ce l’ha se la stessa pro­cura ne chiese l’archiviazione 11 anni prima che Io so venisse dato alle stampe», rileva Lupo. Il più grave è quello gene­rale dello stru­mento pena­li­stico che, non potendo cogliere la poli­tica nella sua dimen­sione col­let­tiva, nelle sue com­plesse inte­ra­zioni con la società, «fini­sce per sovrain­ter­pre­tare, pri­vi­le­giando la dimen­sione del complotto».
Non­di­meno, i fatti sto­rici non pos­sono ribal­tare il punto di prin­ci­pio ossia che governo e magi­stra­tura restano due diversi poteri dello Stato. Gli autori giu­di­cano fuor­viante l’idea della trat­ta­tiva tra lo Stato e la mafia: tant’è che un organo dello Stato, la magi­stra­tura inqui­rente, ne accusa un altro, il Governo, ovvero gli appa­rati di sicu­rezza che da essi dipendono.Il con­flitto isti­tu­zio­nale tra Ingroia, rap­pre­sen­tante di un potere, che chiama in giu­di­zio l’ufficiale dei cara­bi­nieri, Mario Mori, che ne rap­pre­senta un altro, è peri­co­loso e non porta da nes­suna parte dicono gli autori. E con­flitti di que­sto tipo non pos­sono essere sciolti dal plauso o dal dis­senso popo­lare come nel caso dell’associazione anti­ma­fia Agende rosse che all’indomani dell’assoluzione di Mori parlò aper­ta­mente di uno Stato «che assolve se stesso».
In realtà, para­fra­sando Scia­scia ai tempi del rapi­mento Moro, il vero senso dello Stato manca in Ita­lia da gran tempo, sovra­stato dallo spi­rito di cosca e di fazione.I dubbi restano e le domande pure. Per­ché si è scelto di cele­brare que­sto pro­cesso? E per­ché gli ita­liani hanno biso­gno di pen­sare che la mafia abbia vinto (e debba sem­pre vin­cere)? Gli autori riten­gono che que­sto refrain non regga alla prova della verità sto­rica. Nell’ultimo ven­ten­nio, infatti, non ci sono più stati delitti eccel­lenti, ma nem­meno i mafiosi si sono ammaz­zati tra di loro. Mai nella sto­ria uni­ta­ria si è regi­strato un dato del genere, «poche volte nella sua sto­ria la mafia si è tro­vata in così bassa for­tuna», rileva Lupo.
Eppure, l’opinione pub­blica la imma­gina trion­fante, oggi come ieri. Secondo gli autori ciò è dovuto in larga parte al cata­stro­fi­smo di certo gior­na­li­smo e certa magi­stra­tura, agli opi­nion makers che cele­brano imper­ter­riti la pre­sunta, e mai dimo­strata, «invin­ci­bi­lità della mafia».Que­sta asso­lu­tezza e intran­si­genza di giu­di­zio assio­lo­gico, più che esser frutto di un mora­li­smo astratto, sostiene Fian­daca, risente di con­di­zio­na­menti a carat­tere emo­tivo, spie­ga­bili con quello che lo sto­rico Gio­vanni De Luna defi­ni­sce «para­digma vit­ti­ma­rio» nel senso che la magi­stra­tura nel rifiu­tare a priori l’accettabilità di ogni idea di trat­ta­tiva si fa carico di dar voce all’indignazione col­let­tiva, una giu­sti­zia penale che si atteg­gia in qual­che misura a «giu­sti­zia delle emo­zioni». Una tale pro­pen­sione «quasi com­pul­siva», scrive Fian­daca, a iden­ti­fi­care il diritto e la giu­sti­zia sol­tanto con l’accusa e la con­danna, evi­den­zia una scarsa atti­tu­dine ad inte­rio­riz­zare il valore irri­nun­cia­bile, per uno Stato di diritto, del garan­ti­smo penale. Peral­tro il ter­mine trat­ta­tiva «è gene­rico, vago, poli­se­mico», e un reato di «trat­ta­tiva» nean­che esi­ste. E ciò crea inganno e con­fu­sione, oltre che cat­tiva informazione.Secondo Fian­daca si tratta solo di un teo­rema, deci­sa­mente «inde­bo­lito» dalle 1300 pagine di moti­va­zione della sen­tenza di asso­lu­zione di Mori lad­dove «il tri­bu­nale raduna una tale folla di dubbi ragio­ne­voli, a fronte delle molte incon­gruenze logi­che riscon­trate nell’impianto accu­sa­to­rio e delle tante incer­tezze del qua­dro pro­ba­to­rio, da ridurlo a una con­get­tura».
Ecco che, più in gene­rale, la vicenda della cosid­detta trat­ta­tiva diventa meta­fora di une serie di «per­verse inte­ra­zioni tra uso poli­ti­ca­mente anta­go­ni­stico della giu­sti­zia penale, il sistema poli­tico media­tico e il ten­ta­tivo di lumeg­giare per via giu­di­zia­ria fatti oscuri e dram­ma­tici della nostra sto­ria recente».Sorge, dun­que, l’esigenza, sot­to­li­nea Fian­daca, richia­mando un vec­chio scritto di Luigi Fer­ra­ioli (Nuove mas­sime di deon­to­lo­gia giu­di­zia­ria), di una «ride­fi­ni­zione di una deon­to­lo­gia giu­di­zia­ria ido­nea a rile­git­ti­mare i giu­dici come garanti auten­tici della divi­sione dei poteri e dei diritti fon­da­men­tali». Per­ché il rischio che la giu­sti­zia penale si tra­muti in una sorta di socio­lo­gia del cri­mine nella sede sba­gliata è sem­pre dietro

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