L’Arci divisa dal modello di democrazia

by redazione | 19 Marzo 2014 10:57

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All’unanimità, nel con­gresso spac­cato di Bolo­gna, abbiamo appro­vato molte cose. Ses­santa ordini del giorno, fra cui quelli con­tro il Fiscal Com­pact, per la chiu­sura dei Cie, con­tro la Tav e le grandi opere, con­tro la repres­sione degli atti­vi­sti sociali, con­tro l’Italicum. Modi­fi­che allo sta­tuto, inclusa l’incompatibilità con inca­ri­chi poli­tici e isti­tu­zio­nali.
La cura e lo svi­luppo delle basi ter­ri­to­riali era al cen­tro del pro­gramma di tutti e due i can­di­dati, “il valore dell’associazionismo al tempo della crisi” una prio­rità poli­tica comune, per ribal­tare la pira­mide della demo­cra­zia auto­ri­ta­ria che ammazza i diritti. Non è stata una divi­sione fra mode­rati e radi­cali, non è stata nep­pure la con­trap­po­si­zione fra l’impegno dei cir­coli e quello nei movi­menti. Que­ste faglie esi­stono fra di noi, ma in una mappa più com­plessa: fu l’Arci “tra­di­zio­nale” della Toscana a dire per prima no alla guerra in Kosovo.

Ma allora, su cosa ci siamo divisi? Ci siamo divisi sulla democrazia.

La discus­sione pre-congressuale non è riu­scita a pro­durre uni­ta­ria­mente cri­teri con­di­visi per la com­po­si­zione del Con­si­glio Nazio­nale. E nep­pure il con­gresso. Il Con­si­glio avrebbe eletto il pre­si­dente — con Fran­ce­sca Chia­vacci a rap­pre­sen­tare la mag­gio­ranza dei soci, e Filippo Mira­glia la mag­gio­ranza dei ter­ri­tori. Ele­mento evi­dente di dram­ma­tiz­za­zione, ma non il più impor­tante. Noi che abbiamo la demo­cra­zia nel codice gene­tico, nati per rea­liz­zarla attra­verso eman­ci­pa­zione popo­lare e auto-organizzazione, non siamo riu­sciti a tro­vare una qua­dra sui cri­teri della demo­cra­zia interna.

La que­stione era aperta da anni e sot­tin­tende una domanda sem­plice: che cosa è l’Arci? Aldilà di quello che dice la legge, per la quale siamo una asso­cia­zione di pro­mo­zione sociale, cosa vogliamo che sia? Ci pen­siamo come una asso­cia­zione con più di un milione di soci o come una rete nazio­nale di cin­que­mila basi ter­ri­to­riali? Può sem­brare una domanda di lana caprina. Per noi, è un inter­ro­ga­tivo cru­ciale. Per­ché a que­sto si lega il tema della rap­pre­sen­tanza, della forma demo­cra­tica, del governo nazio­nale e delle prio­rità sulla cura e lo svi­luppo asso­cia­tivo.
Ci siamo divisi fra modelli diversi di demo­cra­zia. Il primo è fon­dato sulla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva tra­di­zio­nale secondo il prin­ci­pio “una testa-un voto”, cor­retta verso il basso in nome di un prin­ci­pio di soli­da­rietà ma ten­den­zial­mente pira­mi­dale, dove ai grandi numeri cor­ri­sponde più potere. È la demo­cra­zia del ven­te­simo secolo, per cui si sono fatte le rivo­lu­zioni, codi­fi­cata in legi­sla­zione e pratiche.

L’altro è la demo­cra­zia dei sistemi com­plessi, par­te­ci­pa­tiva e a rete, che si fonda su regole con­di­vise attra­verso l’intreccio di più cri­teri, tesa a rap­pre­sen­tare in modo inclu­sivo e più oriz­zon­tale le dif­fe­renti parti dell’insieme — nel nostro caso i pre­sidi ter­ri­to­riali grandi e pic­coli. E’ più simile alla demo­cra­zia dei movi­menti. E un modello ancora in dive­nire, è scelta poli­tica orien­tata a un pro­getto.
E poi­ché la demo­cra­zia è la forma in cui si rico­no­sce e si sostan­zia con­cre­ta­mente il prin­ci­pio di dignità e di cit­ta­di­nanza, la parola dignità è risuo­nata tante volte nel con­gresso di Bolo­gna. Ci siamo sbat­tuti in fac­cia anche mala­mente qual­cosa che dovrebbe essere scon­tato: la dignità delle diverse forme in cui esi­stiamo — la grande casa del popolo, la pro­get­ta­zione e l’impresa sociale, il pic­colo cir­colo militante.

Il con­gresso è stato duro, dram­ma­tico. Non ave­vamo mai vis­suto una lace­ra­zione così pro­fonda. Sono però con­vinta che un giorno potremo pen­sarlo come un momento per­fino neces­sa­rio. È emerso chia­ra­mente che nes­suna parte dell’associazione può fare a meno dell’altra, se non vuole ridursi alla metà. Nes­suno è mag­gio­ranza, e nes­suno è mino­ranza. È un rie­qui­li­brio nella per­ce­zione per­fino sim­bo­lica della geo­gra­fia dell’Arci molto impor­tante.
Dimo­stra che non c’è scor­cia­toia pos­si­bile, se non quella di un pro­getto fon­dato sulla coo­pe­ra­zione pari­ta­ria che non pre­veda prove musco­lari. Serve anche, a mio parere, recu­pe­rare l’unico col­lante a prova di bomba: una grande capa­cità di ini­zia­tiva poli­tica e cul­tu­rale, come fu per l’Arci di Tom Benetollo.

Allora c’era Tom, che con le sue qua­lità per­so­nali ci prese per mano e ci porto con sé.Oggi solo la dimen­sione col­let­tiva può aiu­tarci a ten­tare di essere all’altezza della sfida. Mi per­metto di essere otti­mi­sta. I cam­bia­menti grandi pas­sano spesso per momenti dram­ma­tici, che aprono la strada al futuro. Un abbrac­cio a Filippo e a Fran­ce­sca, al gruppo di reg­genza, a tutti e tutte i dele­gati a cui ora è chie­sto un sup­ple­mento di par­te­ci­pa­zione, iso­lando qual­siasi ten­denza tale­bana, buro­cra­tica, gerar­chica, pro­prie­ta­ria o di basso pro­filo, ovun­que si annidi, per­sino in noi stessi. Ancora una volta, scarpe rotte eppur biso­gna andare.

Buon cam­mino, cara Arci.

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