LA NUOVA YALTA DELL’ERA OBAMA

by redazione | 3 Marzo 2014 12:13

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VITTORIO ZUCCONI, la Repubblica

WASHINGTON. COME «il vento che va e poi ritorna» nelle memorie del dissidente Vladimir Bukovski, così riprendono a urlare nel mondo le tempeste che il grande gelo sovietico aveva temporaneamente bloccato.

L’utopia di una nuova Russia partner responsabile e ragionevole del concerto delle nazioni lascia il posto alla cacofonia di nazionalismi, irredentismi, prepotenze, odi etnici, interessi che la cappa di piombo del Socialismo Reale aveva soffocato, ma non risolto e che ci riportano al déjà vu dei blindati con stella rossa sferraglianti in casa d’altri.
È più del vento di una “Nuova Guerra Fredda” quello che soffia sull’Ucraina e sulla Crimea, come già spirò in Georgia e nelle regioni caucasiche dopo il 1991. In Ucraina non c’è alcun contenzioso diretto fra Washington e Mosca. La Crimea non è la Berlino del blocco 1948, l’U2 di Gary Powers abbattuto nel 1960, la Cuba dei missili 1963 e neppure l’assistenza indiretta ma vitale dell’Urss al Vietnam invaso dalle forze americane. L’Ucraina ha rinunciato da tempo all’arsenale nucleare che aveva ereditato da Mosca e i soli armamenti atomici sono quelli collocati a bordo della flotta russa all’ancora nel porto di Sebastopoli. Ma in Crimea c’è una località chiamata Yalta e il comportamento di Putin rivela che esiste e resiste una “Nuova Yalta” di fatto.
Se parliamo di “venti di Guerra Fredda” che sembravano andati e invece ritornano è soltanto perché, come sempre, il nanismo politico della diretta interessata, l’Europa, la sua crescente dipendenza dalle forniture di energia russe, e la sua inesistenza come forza coesa e seria, portano immediatamente alla sola potenza che potrebbe, se lo volesse e se sapesse come farlo, resistere al neo imperialismo di Putin e push back, fare a spallate con la Russia, come ha detto ieri uno dei leader massimi della destra repubblicana Usa, il senatore Lindsey Graham.
Ma la partita aperta fra Putin e Obama è molto più della classica partita a scacchi che Washington e Mosca giocarono fino al 1991, usando situazioni, Paesi, governi, come pedoni sulla scacchiera, sempre facendo molta attenzione a non passare direttamente alle mani. Quella di oggi è una scacchiera multidimensionale, una Nuova Yalta a più piani che mescola economia e fondamentalismi religiosi, avventure militari e comunicazione istantanea di immagini e di propaganda della quale le cancellerie hanno perso completamente il controllo. È questa, la sensazione di avere perduto il controllo della storia il movente che spinge «il caro amico Vladi», come diceva Berlusconi, a muoversi per tenersi stretti brandelli di Ucraina.
L’operazione militare di Putin in quella Crimea che gli scolari italiani dovrebbero ricordare bene dallo studio del nostro Risorgimento è un conflitto realmente limitato e, per una volta, niente affatto sgradito agli stessi abitanti della regione invasa, che sono largamente filo russi.
L’elemento davvero preoccupante dell’operazione Crimea è appunto che la Russia di Putin applica tattiche, e visioni strategiche, ottocentesche al mondo del XXI secolo, dimostrando la profonda arretratezza culturale di una leadership che si rifà a modelli addirittura pre-sovietici, zaristi. Putin non è il successore di Stalin, di Kruscev, di Gorbaciov e neppure di Eltsin, ma di Nicola II, l’ultimo dei Romanov.
Di fronte a questi comportamenti che richiamano direttamente il più classico dei pretesti interventisti: (“il grido di dolore”) di altri tempi e tratteggiano una “Dottrina Putin” di mano libera nel proprio emisfero, gli Stati Uniti non hanno in realtà strumenti efficaci per una “controspallata”, né mezzi reali di intimidazione. La minaccia di far saltare quel G8 convocato proprio a Sochi, il Villaggio Potemkin della grande finzione olimpica già dimenticata, è la classica tigre di carta, anche meno dolorosa per il Cremlino di quanto fosse stato il boicottaggio dei Giochi di Mosca 1980. Non è la presenza nei G8 o G20 che rende importante una nazione. È la sua importanza che rende necessaria la partecipazione ai consessi maggiori. Che la Russia sia presente, o assente, non cambierebbe di nulla la dipendenza europea dalle forniture — e sempre più dai capitali — pompati dagli oligarchi russi.
«Quando Obama ammonisce Putin — insiste sarcastico sempre Lindsey Graham — il mondo alza gli occhi al cielo» e per educazione evitiamo anche di dire che cosa il mondo faccia quando l’Onu lancia i propri vuoti messaggi. Nella perenne irrilevanza dell’Europa, che ora si sente anche accusata di avere fomentato e finanziato la rivolta degli ucraini filo europei senza mai avere in realtà fatto nulla, si attende sempre un segnale dalla Casa Bianca, nella quale regna molto più l’esitazione che la decisione.
Dal disastro della Siria, quando Obama incautamente si espose in ultimatum precisi che sapeva di non poter rispettare, l’Amministrazione dovrebbe avere imparato a non cadere più nel tranello della «linea rossa nella sabbia», quella linea che non si deve superare o guai. Già la Casa Bianca si è esposta pericolosamente ammonendo Putin a non violare la sovranità ucraina, cosa che finora i russi hanno formalmente, e derisoriamente, evitato di fare mandando migliaia di soldati senza mostrine e bandiere.
Se questo esercito senza nome ufficiale dovesse trasformarsi in un’invasione e occupazione con insegne ufficiali, se la situazione dovesse degenerare altrove in guerra civile, magari raggiungendo il cratere sempre ribollente di Chernobyl ad appena 160 chilometri da Kiev, assisteremo a un’eruzione di iniziative diplomatiche, di incontri fra europei e americani, di appelli e di moniti senza denti. Ma nessuno, certamente non gli Usa, che si stanno ancora dolorosamente e lentamente scollando dall’Afghanistan, è disposto a morire per la Crimea. In Ucraina, la Dottrina Putin non ha veri rivali che non siano la metà degli ucraini stessi.

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