Ma in Europa qualcosa si muove
Come avrà notato ieri Matteo Renzi al Consiglio europeo, Bruxelles tende a ribadire scelte e politiche conosciute. Può sembrare che nulla si muova. Non è così. In Europa stanno succedendo cose importanti
Nei giorni scorsi, una straordinaria: il completamento dell’Unione bancaria, un accordo rilevante quasi quanto il lancio della moneta unica a fine Anni Novanta. Si tratta di un meccanismo in buona parte autonomo dai governi che protegge il sistema bancario europeo dal rischio di crolli a catena. E qualcosa potrebbe muoversi su un altro versante: la Banca centrale europea, anch’essa separata dalla politica, è in qualche modo chiamata a fare un salto nella definizione dei suoi obiettivi: nonostante i tassi d’interesse siano vicini allo zero (0,25%), sta di fatto assistendo a un restringimento della politica monetaria che la banca svizzera Julius Bär ha calcolato pari a un rialzo dei tassi dello 0,5% negli ultimi sei mesi. Una posizione difficile da sostenere a fronte di una situazione di possibile deflazione.
Dopo cinque anni di crisi violenta, siamo di fronte a un nuovo scenario. Per molti versi, sono stati fatti passi avanti sostanziali in direzione di un’Eurozona che funzioni. Il meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie approvato dalla Ue giovedì mattina è un risultato che nessuno si sarebbe aspettato solo un anno fa. Le banche in difficoltà verranno individuate dalla Bce e come intervenire sarà deciso da un Comitato di risoluzione che avrà a disposizione un fondo di salvataggio di 55 miliardi: se sarà il caso potrà anche chiuderle. I governi potranno metterci becco ma solo in teoria, in pratica potranno fare poco. Il fondo di salvataggio sarà messo insieme in otto anni, avrà un grado di mutualità tra i Paesi dell’Eurozona e potrà raccogliere capitali sui mercati. La decisione su come intervenire in una crisi bancaria dovrà essere repentina, finale nel giro di un weekend. Unito alla supervisione affidata alla Bce, è un firewall solido contro i rischi finanziari di sistema e rompe il circolo vizioso tra crisi bancaria, salvataggio di Stato e altre crisi di banche con molti titoli pubblici in portafoglio.
«È un grande progresso», ha commentato Mario Draghi. Certo, la questione delle banche troppo grandi per essere lasciate fallire non è stata ancora risolta e non lo sarà a breve: Parlamento europeo e Commissione sono a fine legislatura. Le proposte di separazione tra attività di banca commerciale e di banca d’investimento dovranno essere rimesse all’ordine del giorno probabilmente l’anno prossimo, dopo le elezioni europee e dopo la formazione della nuova Commissione. Resta il fatto che l’Europa ha compiuto un passo avanti strutturale di enorme rilievo. «È stato messo in sicurezza il sistema bancario», riassume Marco Mazzucchelli, il banchiere italiano membro del Gruppo Liikanen che ha stilato il Rapporto sulla base del quale la riforma è stata modellata.
Se si passa alle politiche economiche, occorre invece dire che gli spazi per aumentare i deficit e i debiti pubblici sono pochi, come ha ribadito ieri il Consiglio europeo. D’altra parte, con livelli d’indebitamento degli Stati proiettati sopra al 90% dei Pil è difficile pensare che la Germania e Bruxelles abbandonino la politica del rigore. Già con debiti del genere, sarebbe problematico affrontare una recessione: nella fase espansiva del ciclo economico, in arrivo, si tratterà piuttosto di ridurre i debiti. A parte le riforme per rendere efficienti le economie, che sono responsabilità nazionali, a livello europeo rimane la politica monetaria.
Qui gli spazi di intervento sono più consistenti. Sta succedendo che, ormai dalla fine del 2012, il bilancio della Bce si è ristretto da oltre tremila miliardi a 2.100, soprattutto perché le banche stanno restituendo i prestiti che la banca centrale aveva fatto loro con il programma Ltro a iniziare da fine 2011. Ciò ha significato una riduzione della liquidità: la si nota in un calo della massa monetaria M3 e in un andamento negativo (nel senso che calano) dei prestiti ai residenti dell’Eurozona. Succede dunque che, a parità di tassi d’interesse ormai ai minimi, l’euro si rafforza e in parallelo si restringe la posizione monetaria: secondo Julius Bär, è come se i tassi fossero cresciuti del 2% dalla metà del 2012 e dello 0,5% negli scorsi sei mesi. Il problema è che l’Eurozona non ha bisogno di una politica monetaria restrittiva. Anzi. Se Draghi e la Bce non l’hanno ancora corretta — attraverso misure non convenzionali — probabilmente è perché ci sono opposizioni, si immagina tedesche.
Di fronte però a un’inflazione dell’area euro sotto l’1% — al limite della deflazione — la Bce può a ragione sostenere che operare per farla crescere rientra nel suo mandato di garantire la stabilità dei prezzi. L’obiettivo della banca centrale, infatti, è un’inflazione attorno al 2% e vale specularmente: se l’inflazione si discostasse di oltre l’1% verso l’alto (sopra al 3%) di certo la Bce interverrebbe; ora che si discosta di oltre l’1% verso il basso si suppone faccia lo stesso. Dal momento che i tassi d’interesse sono già ai minimi, però, restano a disposizione solo misure non convenzionali di politica monetaria, simili a quelle che negli anni scorsi ha fatto la Fed americana. Sui mercati è diffusa l’opinione che non si tratterebbe necessariamente di comprare titoli di Stato europei. La Bce potrebbe acquistare direttamente debiti cartolarizzati delle aziende dei diversi Paesi, magari cercando forme di garanzia per proteggere il suo bilancio: eviterebbe polemiche sugli aiuti agli Stati e darebbe risorse alle imprese per fare ripartire le economie.
Insomma, i leader europei, la Commissione e il Parlamento hanno prodotto la nuova Unione bancaria. Assieme a politiche monetarie non convenzionali, il risultato potrebbe essere una bella primavera. Anche senza esagerare il deficit.
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