Ma il futuro della Crimea non è deciso
UN AVVENIMENTO illegale può esprimere una volontà autentica. Disonesti e sinceri?
Può accadere. È il caso, per certi aspetti, del referendum conclusosi ieri in Crimea con una forte maggioranza in favore di un’annessione alla Federazione russa
LO SCRUTINIO potrebbe essere stato truccato. Vladimir Putin non è un uomo di sfumature. Voleva sfidare l’Occidente che lo diffidava dall’indire una consultazione pirata in Crimea, e l’ha fatto con gli abituali toni eccessivi. Appare infatti tale, eccessiva, la percentuale (“sovietica”) attribuita a coloro che vogliono un ritorno alla madre Russia (più del 90% stando ai primi exit poll). A far da freno non c’erano osservatori internazionali. Putin non ne ha voluti tra i piedi. Perché pur trattandosi di un’operazione da furfanti, illegittima e incostituzionale, era tanta la gente in Crimea che voleva ritornare a casa, tra le braccia della grande madre russa. Se dunque c’è stato un imbroglio non ce n’era bisogno.
Il referendum poteva essere organizzato soltanto in seguito alla richiesta di almeno tre milioni di cittadini, e doveva svolgersi su tutto il territorio ucraino per decisione del Parlamento nazionale. E invece Vladimir Putin ha montato una sua messa in scena. Ha traumatizzato gli abitanti della Penisola presentando con la sua propaganda la rivoluzione della Majdan, a Kiev, come una minaccia fascista e persecutoria ai cittadini russi di Crimea; ha spinto il parlamento locale a dichiarare l’indipendenza senza che ne avesse il potere; e soprattutto ha invaso militarmente la Penisola.
Potremmo definire l’accaduto truffa a mano armata. Aggiungendo tuttavia che la maggioranza delle vittime era contenta di essere truffata e rapinata. Di fatto è andata a votare “sulla punta dei fucili russi”, ma il ritorno alla grande madre Russia era un suo intenso desiderio. Non di tutti, di molti, dei più. E quest’ultimi hanno colto l’occasione per esaudirlo. La Crimea è stata russa per secoli.
La conquistò nel ‘700 Caterina II e per cambiamenti burocratici verificatisi durante l’Unione Sovietica si è ritrovata inclusa nell’Ucraina indipendente. Della quale nel 1994 la Russia garantì tuttavia solennemente, con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, l’integrità territoriale. Vladimir Putin non ha quindi rispettato l’impegno sottoscritto dallo Stato di cui è il massimo rappresentante. Perduta l’Ucraina come stretta e ubbidiente alleata, s’è preso una sua provincia. La più russa delle province ucraine, dove c’è anche una vecchia base navale affacciata sul Mar Nero e rivolta al Bosforo, ai mari caldi, al Mediterraneo. Lo scippo garba agli abitanti col cuore russo, colma la loro aspirazione, ma lascia scettici gli ucraini fedeli a Kiev e i Tatari fedeli a se stessi e indotti dalla storia a sospettare degli altri. In particolare se russi. Putin, alla minoranza che ieri ha perso il referendum, e che in gran parte non è nemmeno andata alle urne, non ispira fiducia.
Questo imbroglio sulla penisola del Mar Nero è destinato ad aggravare la crisi europea più grave degli ultimi decenni, e ad
accentuare l’aspro confronto politico tra Washington e Mosca. L’Occidente intero, con sfumature diverse, ha dichiarato illegittimo il referendum proponendosi di punire Putin e i suoi nel caso fosse stato tenuto. Adesso dovrebbero quindi scattare le sanzioni promesse con toni incerti dai Paesi europei, frenati dai forti interessi con Mosca, e con piglio più fermo dagli Stati Uniti, che di interessi con Mosca ne hanno meno. Sono in programma il congelamento dei beni di oligarchi russi o di responsabili politici legati a Putin, dosaggio più severo dei visti, e provvedimenti ancora più severi, e quindi controversi, negli scambi commerciali. Sul piano politico e militare i rapporti sono già sotto osservazione o sospesi. Quel che si profila è un isolamento della Russia. I tempi lasciano un margine all’attività diplomatica mai sospesa.
Votando al referendum la gente di Crimea non ha decretato l’annessione alla Federazione russa. Non ne aveva il potere. Si è dichiarata in favore del ricongiungimento. Decidere come annettere la Crimea, e sotto quale forma, spetta al Parlamento russo. Il quale ha già dato un giudizio positivo ma dal 21 marzo, cioè da venerdì prossimo, avvierà una discussione sull’ingresso nelle strutture federali di un territorio che ne abbia la volontà e l’esprima in una determinata situazione.
Sotto questo aspetto sarà affrontato formalmente il caso Crimea. A influenzare la decisione saranno i negoziati e le reazioni alle sanzioni nel frattempo decise. Sarà Putin a emettere il verdetto finale e le scelte possono variare: vanno da un’annessione netta, a una repubblica autonoma compresa nella Federazione russa, a una provincia con grande autonomia, in grado di mantenere i legami anche con l’Ucraina. Sempre il 21 marzo, il governo di Kiev firmerà l’associazione politica con l’Unione europea, quella all’origine della protesta sulla Majdan. Viktor Yanukovich, il presidente filo russo, la rifiutò provocando la protesta dei filo europei. I quali adesso, cacciato Yanukovich, e rifiutata l’alternativa dell’Unione euroasiatica di Putin, si rivolgono di nuovo a Bruxelles. Questa decisione inciderà sulla forma istituzionale della Crimea recuperata dalla Russia. Farà parte dei negoziati.
I quali si annunciano severi, perché nell’euforia della vittoria del referendum in Crimea i filorussi della regione sudorientale dell’Ucraina possono alzare la voce per chiedere, pure loro, consultazioni sull’avvenire delle loro province. In un clima politico surriscaldato gli incidenti sono facili. Gli stessi
militari russi, che già hanno preso il controllo sul territorio ucraino di un impianto di gas destinato alla Crimea, potrebbero violare con disinvoltura i confini, per garantire gli impianti che forniscono, ad esempio, acqua ed elettricità alla provincia conquistata. Saranno, giorni, ore roventi.
La sfida per Vladimir Putin è pesante. È ferito dalla perdita dell’Ucraina; si sente minacciato di estromissione dal sistema finanziario occidentale; vede i beni degli oligarchi, amici o nemici, sul punto di essere congelati
nelle banche occidentali; e, sempre agli oligarchi, feudatari dell’economia russa, potrebbe essere persino precluso o dosato l’accesso in Occidente. Per il capo del Cremlino sono guai seri. Ritornano attorno a lui, dicono le cronache attente da Mosca, i vecchi “ stalinisti” che si erano allontanati dopo l’apertura liberista dell’economia, con tutte le conseguenze nei rapporti con l’Europa e l’America, e che adesso vedono con piacere riemergere quella che, riluttanti, chiamiamo nuova guerra fredda
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