Euro e finanza sono il fallimento delle élites
Enrico Pedemonte, Pagina99
Jürgen Habermas lo va ripetendo da mesi: le élites politiche europee (in particolare quella tedesca) hanno fallito e il processo di integrazione politica dell’Europa è arrivato a un punto morto. Il filosofo tedesco lo ha scritto in un lungo saggio pubblicato nel settembre 2013, e lo ha ribadito in articoli e interviste, anche di recente su Le Monde.
Parole pesanti le sue: le élites europee stanno mettendo la testa sotto la sabbia, inseguono progetti aristocratici senza coinvolgere i cittadini, hanno perso la legittimazione popolare anche perché in molti casi non sono state elette dal popolo ma solo nominate e questo ha fatto crescere un fossato ormai incolmabile.
Un modo per giustificare la crescita dei movimenti populisti in Europa? Al contrario, una scossa per segnalare il problema: i partiti populisti hanno ragione quando dicono che l’Unione europea non ascolta i suoi cittadini. L’inadeguatezza delle élites europee fu la causa che scatenò la prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario quest’anno, dando l’avvio a una tragedia che durò oltre trent’anni.
Una dimostrazione di quanto grave sia questo problema è fornita dalla trattativa in corso per la creazione di un’area di libero scambio Europa-Usa. Se i negoziati andranno a buon fine, nel giro di qualche anno esportare merci dall’Italia agli Stati uniti sarà facile come farlo tra due regioni qualunque dell’Europa. Apparentemente un risultato superbo: chi può schierarsi contro l’eliminazione delle barriere doganali? La narrativa che ci viene offerta è che un allargamento del mercato atlantico porterà benessere, aumento del Pil e nuova ricchezza. Oltreché la pace perpetua, naturalmente. Tutti contenti, dunque.
Ma allora perché queste trattative procedono in modo rigorosamente riservato tra Bruxelles e Washington, e su di esse circola così poca informazione? Perché Obama si oppone alla richiesta (promossa da Harry Reid, capo dei democratici al Senato) di discutere nel merito di queste norme al Congresso? Si tratta di un’opposizione che probabilmente causerà lo slittamento delle trattative oltre le elezioni di novembre. Un giornale come l’Economist punta il dito contro la debolezza di Obama, che con questo gioco al rinvio causerebbe una perdita di ricchezza, per il mondo, di 600 miliardi di dollari. Ma c’è un’altra faccia della medaglia.
Il trattato di libero scambio Usa-Europa avrà un significativo impatto su tutte le imprese, i lavoratori e i consumatori europei, cioè su tutti i cittadini: perché gestire le trattative in gran segreto? O meglio, perché nascondere questa discussione bilaterale agli occhi dei cittadini lasciando che a Bruxelles e a Washington siano le lobby economiche a occuparsene? Perché non è vero che tutte le categorie sociali ne trarranno vantaggio. Alcune ci guadagneranno e altre ci perderanno. Gli esperti dicono che alla fine la somma sarà positiva. Ma quali esperti, e in base a quali considerazioni?
Certo, si tratta di un tema delicato di cui discutere in pubblico. Un tema specialistico, complesso, controverso. Ma il compito dei leader, delle élites politico-culturali dovrebbe essere proprio questo: semplificare i grandi temi, identificare gli obiettivi prioritari, mediare tra gli interessi di parte e quelli particolari. In altri termini: impegnarsi in battaglie culturali, e riuscire a vincerle. Invece nulla di tutto ciò avviene. Una trattativa che condizionerà il futuro dell’economia europea, specie quella italiana che dipende in modo rilevante dallo scambio con l’estero, è lasciata alle decisioni private di un gruppo di burocrati europei che non devono rispondere agli elettori. C’è da stupirsi se la credibilità delle istituzioni politiche è ai minimi storici, i movimenti populisti prosperano e il distacco dalle istituzioni europee cresce?
In realtà di tratta di un cane che si morde la coda. Più le élites prendono le loro decisioni nel segreto delle loro stanze, a braccetto con le lobby, più aumenta la sfiducia collettiva. La lievitazione del fronte dei No, che blocca centinaia di cantieri in Italia (e non solo), nasce dal generale disprezzo nei confronti del potere costituito, dimostrazione concreta del fallimento delle élites nazionali.
E il problema si fa più grave quando ci si sposta al di là dei confini nazionali. Perché negli ultimi decenni, mentre evolvevano i processi di globalizzazione, anche i meccanismi decisionali migravano all’estero, cooptati da organismi internazionali lontani dai cittadini, mai eletti direttamente dai popoli. Sono questi organismi che negli ultimi decenni hanno posto le basi della liberalizzazione dei mercati finanziari, e hanno progettato l’architettura istituzionale su cui è stato costruito il sistema dell’euro. C’è da stupirsi se il fallimento di queste scelte, decise da ristrette aristocrazie, sta portando a una rivolta che talvolta ha il sapore del populismo?
Il tema del fallimento delle élites è stato rilanciato con forza (il 14 gennaio) da Martin Wolf, influente giornalista del Financial Times, in un editoriale che ha fatto scalpore.
Secondo Wolf si possono citare almeno tre esempi recenti di questo fallimento storico.
Il primo è stato l’aver sottovalutato le conseguenze della liberalizzazione del movimento dei capitali e della conseguente finanziarizzazione dell’economia mondiale, un fenomeno che da una parte ha ridotto gli incentivi a investire sul lavoro e dall’altra ha incoraggiato l’espansione del debito. L’incapacità di prevedere il disastro è stata micidiale, fino al paradosso che la crema della finanza ha dovuto chiedere di essere salvata con il denaro pubblico, cioè dalla povera gente.
Il secondo fallimento è l’emergere di un’élite economico-finanziaria sempre più potente e sempre più estranea rispetto agli interessi dei paesi di origine. Una plutocrazia che ignora il concetto di cittadinanza e non risponde più né ai cittadini né alla democrazia. Perché salvare i ricchi con i soldi pubblici quando questi condividono così poco delle proprie ricchezze?
Il terzo fallimento è costituito dall’euro, nato da una progettazione difettosa, che sta uccidendo le economie deboli ed è causa di migrazioni di massa e di debiti pubblici colossali. Oggi – dice Wolf – all’interno dell’eurozona il potere (oltre che in quelle della Germania) è nelle mani di un trio di burocrazie non elettive, la Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale. Le stesse élites che non hanno previsto gli errori sono ora incaricate di risolverli.
In realtà il fallimento delle élites potrebbe non essere un caso fortuito della storia. Recentemente due archistar dell’economia, Daron Acemoglu (del Massachussetts institute of technology) e James A. Robinson (dell’università di Harvard) hanno scritto un saggio (Persistence of Power, Elites and Institutions) nel quale analizzano come le élites, dopo aver visto decrescere il loro potere con la democratizzazione crescente del dopoguerra, si sono impegnate nella creazione di lobby per marcare la loro influenza sui partiti e sui governi e hanno sviluppato strumenti di potere de facto con i quali hanno apposto il loro sigillo sulle legislazioni locali e sulle norme internazionali. Lo stesso impegno è stato messo nel plasmare il sistema dei media perché è proprio attraverso il controllo della cultura collettiva che si manovra il potere.
Nessuno si illude che le élites che governano le istituzioni si mobilitino per il benessere esclusivo della povera gente. Ma quando il risultato è il fallimento dell’intero sistema, come è accaduto negli ultimi anni, allora c’è il rischio che l’intero ordinamento politico collassi, esattamente come avvenne con la prima guerra mondiale. Non è un caso se quella guerra ebbe l’effetto immediato di distruggere la principale eredità del XIX secolo: la liberalizzazione degli scambi commerciali, con tutto quello che seguì. «La crisi europeai – dice Wolf – non è solo politica, è anche costituzionale.[…] Le élites devono fare meglio. Altrimenti la rabbia popolare le annienterà»
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