El Salvador, dalla lotta armata al potere l’ex ribelle Sánchez Cerén presidente

by redazione | 14 Marzo 2014 11:26

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LA VECCHIA guerriglia marxista al potere in America Latina sulla scia di una crescita economica che sta trasformando l’intero continente. L’ultima vittoria di un esponente di quella generazione che negli anni ‘70 si trovò a fare i conti con feroci dittature, sempre finanziate dagli Usa, e scelse la lotta armata riguarda un ex professore di liceo di 69 anni tra i fondatori del Fronte nazionale Farabundo Martì per la liberazione nazionale (Fmln). Candidato della sinistra storica rimasta ai margini del potere dal 1992, anno della firma di un accordo di pace inseguito
dal 1980, Salvador Sánchez Cerén è stato eletto presidente del Salvador nelle elezioni di domenica scorsa. Un successo previsto da tutti i sondaggi ma ottenuto solo di stretta misura.
Dato in vantaggio di almeno dieci punti dopo la prima tornata, il vecchio comandante diventato guerrigliero a 26 anni ha dovuto attendere fino a ieri la conferma dei risultati da parte del Tribunale elettorale chiamato al conteggio di una manciata di voti contestati. Ha ottenuto il 50,11 per cento dei consensi. Ma la destra del partito Arena – rimasta al potere per tre legislature e che nel 2009 aveva perso la presidenza – ha digerito a fatica lo scarto di appena 13 decimali.
I militanti del tradizionale fronte affaristico-conservatore sono scesi in piazza. Hanno occupato incroci, strade, quartieri; dato alle fiamme copertoni, alzato cartelli, assediato fino a notte fonda la sede del Tribunale. Non si sono rassegnati davanti ai risultati. Hanno gridato alla frode. Hanno cavalcato l’ondata emotiva di vecchi incubi
in fondo mai sopiti. La grande paura di un ritorno del comunismo, la certezza di un futuro segnato da un’alleanza con il Venezuela di Maduro, il dominio dell’onnipresente Cuba.
Non è stato facile placare gli animi.
Il Salvador è sembrato tornare indietro improvvisamente di 30 anni. Il nuovo presidente, un uomo pratico, ordinato, dotato di grande umorismo, sensibile ai traumi di un conflitto che seminò 75 mila morti, tra attentati delle formazioni di sinistra e lo sterminio dei dissidenti da parte degli squadroni paramilitari, ha detto di puntare ad un patto nazionale con i partiti conservatori e le industrie che li sostengono. Il Salvador è tra i paesi più poveri del Centroamerica, con il 40 per cento della popolazione che vive in condizioni difficilissime. Senza considerare la violenza delle “maras”, le gang giovanili che si scannano per il controllo del narcotraffico.
Salvador Sánchez Cerén è il nuovo tassello che la vecchia guerriglia riesce a piazzare in un Continente storicamente dominato dai golpe militari. Con Dilma Rousseff in Brasile, Alberto “Pepe” Mujica in Uruguay e Daniel Ortega in Nicaragua partecipa ad una rinascita che sembrava impossibile solo qualche anno fa. La prigione, le torture, la tirannia, la clandestinità segnati dal terrore di essere presi, uccisi e fatti sparire in qualche fossa comune o gettati vivi da un aereo nelle acque di un oceano, hanno forgiato una classe politica che la destra più reazionaria non è riuscita ad annientare. L’esperienza del passato – anche con i suoi errori e i suoi eccessi – li ha resi più saggi e più aperti ai cambiamenti del futuro. È grazie a queste donne e a questi uomini se il momento d’oro di un Continente sempre rimasto ai margini del mondo dei Grandi ha consentito la formazione di una nuova classe media: il motore trainante della crescita. La dimostrazione che è possibile un modello economico diverso. Che la distribuzione della ricchezza rende più forti anche i paesi più deboli.

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