Disarm Arci. Facciamoci del male

Disarm Arci. Facciamoci del male

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La noti­zia è inso­lita e cla­mo­rosa. L’Arci, il gigante dell’associazionismo ita­liano, l’organizzazione ricrea­tiva e cul­tu­rale nata nel ’57, con 116 comi­tati pro­vin­ciali e un milione e cen­to­mila soci, dopo quat­tro giorni di con­fronto non è riu­scita a con­clu­dere i lavori del suo sedi­ce­simo con­gresso. Al momento di com­porre le diver­sità, tra un’anima legata alle case del popolo e ai cir­coli emi­liani e toscani e una sen­si­bi­lità più movi­men­ti­sta cre­sciuta nelle lotte sociali, molto al sud con­tro la cri­mi­na­lità, si è pre­fe­rito alzare ban­diera bianca e rin­viare tutto a un con­gresso bis. Nel frat­tempo l’associazione sarà gover­nata da un comi­tato di reg­genza diretto dal pre­si­dente uscente, Paolo Beni.
Nono­stante ci fos­sero tutti le avvi­sa­glie di un con­flitto, testi­mo­niato dalla sfida di due can­di­dati alla suc­ces­sione, tut­ta­via l’esito di una rot­tura ha colto di sor­presa chi fino all’ultimo aveva spe­rato in una pos­si­bile con­vi­venza delle dif­fe­renze. Per­ché così dovrebbe essere in una asso­cia­zione ricca di sto­ria, di espe­rienze sociali, di bat­ta­glie civili. Per­ché l’Arci non è un par­tito dove que­stioni di potere spesso fanno pre­mio sui con­te­nuti. Per­ché siamo in un momento di sban­da­mento forte della sini­stra, e la presa del potere di Renzi è lì a ricordarcelo.Non essere riu­sciti nell’impresa di valo­riz­zare i diversi orien­ta­menti per farne la forza dell’associazione, per ren­derla più capace di coniu­gare la tra­di­zione, la soli­dità con i mili­tanti più vicini alle mobi­li­ta­zioni e ai momenti di lotta di que­sti anni di crisi (appunto l’obiettivo dif­fi­cile ma ambi­zioso del con­gresso), è un brutto segnale. Pur­troppo non l’unico a col­pire l’arcipelago della sini­stra in que­sto momento.Abbiamo appena visto un esor­dio dif­fi­cile della Lista per Tsi­pras, alla quale pro­prio dall’Arci viene un soste­gno forte e capil­lare già nella rac­colta delle firme e nelle can­di­da­ture. E le cro­na­che di que­sto fine set­ti­mana rac­con­tano di scon­tri (anche fisici) per i pac­chetti di voti nelle urne delle pri­ma­rie degli orga­ni­smi peri­fe­rici del Pd (e in pro­spet­tiva per le can­di­da­ture alle pros­sime ele­zioni europee).
Nascon­dere o addol­cire la pil­lola non serve. Meglio guar­dare in fac­cia i nostri limiti e cer­care di trarne qual­che inse­gna­mento. Come fa, egre­gia­mente, uno spot che pub­bli­cizza la Lista per Tsi­pras. Un gruppo di ragazzi attorno al tavolo di un bar che ini­ziano bal­dan­zosi a rife­rire sulla buona rac­colta di firme ma che poi si ritro­vano a liti­gare per­ché cia­scuno pensa che il suo par­ti­cu­lare sia il solo, il vero, l’unico degno di essere rappresentato.La crisi evi­den­te­mente lavora a divi­dere, social­mente innan­zi­tutto e quindi poli­ti­ca­mente. Ma un pen­siero di sini­stra dovrebbe esserne così con­sa­pe­vole da essere in grado di met­tere in campo tutti gli anti­corpi per neu­tra­liz­zare divi­sioni ideo­lo­gi­che che hanno perso da gran tempo la loro forza, per acco­gliere invece le mille sfu­ma­ture cul­tu­rali, poli­ti­che e sociali che fanno della sini­stra l’unica voce cri­tica con­tro la deriva di un modello fal­li­men­tare che ormai si affida al mar­ke­ting poli­tico come l’ultima ancora di con­senso. La crisi dovrebbe essere un’occasione di rin­no­va­mento, lo spec­chio in cui leg­gere gli errori, non l’alibi per raschiare il barile.


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