Ceuta. La porta d’Europa
CEUTA. La rete è divelta. L’ultimo assalto, all’alba di martedì scorso, l’ha piegata e bucata in più punti. Non c’è stato neanche il tempo per raddrizzarla. Fronteggiare 1500 immigrati africani e subsahariani avvolti ancora dal buio non è stato facile. Un muro compatto di uomini e di donne. Moltissimi giovani, decisi a tutto. Divisi in due gruppi, sono usciti dai boschi sulla costa nord del Marocco dove erano rimasti in attesa del segnale. Hanno iniziato a marciare verso il ponte che divide la frontiera con l’enclave spagnola di Ceuta. Una parte ha piegato verso la spiaggia di Tarajal; l’altra ha affrontato direttamente la barriera di ferro e filo spinato. Sono stati respinti. A fatica. La rete ora è punteggiata da pezzi di stoffa e di plastica. Chi è riuscito ad arrampicarsi ha usato magliette e sacchetti per proteggersi le mani. Soprattutto in cima al lungo pontile in cemento armato che le onde e il flusso della marea hanno sventrato in piccoli blocchi. La Guardia civile ha creato un blocco con gipponi e autoblindo. Ma ha potuto fare ben poco. Era in allarme da tre giorni: le telecamere munite di sensori per le fonti di calore avevano registrato un movimento massiccio di persone. «Ci aspettavamo un assalto. Ma non di tali dimensioni. È stato impressionante», ammette un ufficiale della polizia spagnola.
Si vede che qui, a tre metri dall’Atlantico, la massa di immigrati si è fatta largo a fatica. Prima la pioggia di sassi, bottiglie, bastoni, lattine. Poi la corsa verso la rete, alta sei metri. La spinta verso l’alto, le mani aggrappate alle maglie, le dita che restano impigliate, si slogano, si feriscono; i piedi che cercano un appiglio, le scarpe che scivolano, lo sforzo dei muscoli tesi, la bocca aperta in una smorfia, le urla e le grida degli altri immigrati, degli agenti che accorrono, i rumori secchi dei primi colpi di fucile caricati con proiettili di gomma, i fumogeni che liberano i gas, i bengala che fanno luce nella foschia dell’alba. Il grande salto verso l’Europa. Molti hanno paura. Era terrorizzata anche Mireille, 15 anni, del Camerun. Ha saltato sei metri di barriera con la tibia rotta. Un’eroina di questa battaglia terribile e silenziosa. Se ci ha provato lei, possono tentare tutti.
Sulla spiaggia di sabbia nera a Tarajal, da sempre una sorta di terra di nessuno, ci sono ancora i resti della battaglia. Pietre, sbarre di ferro, vestiti e magliette che nessuno raccoglie. Fare pulizia è inutile. Domani si ricomincia. Ceuta è assediata da 40 mila migranti. Melilla, l’altro avamposto spagnolo in Marocco, 400 chilometri a est, da 30 mila. Le acque scure dell’Atlantico sollevano altri sassi, detriti, fango. Dieci dei 15 morti affogati il
6 febbraio scorso li hanno ripescati sul fondo. Erano in trecento. Africani, neri. Troppo scuri in un territorio dominato dai chiari. Per loro era impossibile passare la frontiera a bordo delle auto. Uno è stato abbandonato chiuso in una valigia. Gli agenti faticano a capire come sia riuscito ad entrarci. Il circo della disperazione. Per gli arabi è più facile. Mischiati agli altri passeggeri, muniti dei documenti falsi che le gang locali, legate alla mafia del traffico umano, forniscono per mille euro. L’alternativa è il doppio fondo delle macchine. Con il rischio di soffocare, di restare per ore sdraiati in una bara alta trenta centimetri.
A cento metri di distanza, dall’altra parte della barriera, una rete di acciaio e ferro alta sei metri, sormontata da telecamere e torrette, uomini e donne si accalcano in attesa del segnale. Via sms, Facebook e twitter. Lanciato dalla foresta, rimbalzato a Tangeri, Parigi, Londra, Bruxelles. Tre, quattro registi che decidono tempi e modi della strategia. Soprattutto adesso che alla Guardia civile è stato ordinato di non usare più armi da fuoco in caso di invasione. Il momento è propizio. «Ora o mai più», si legge sui social. Madrid ha spedito altri 400 uomini dopo le notizie che arrivano da Melilla. Qui gli assalti si susseguono senza sosta. Tutte le mattine. All’alba, con il cielo ancora scuro. Molti si tuffano in mare. La maggioranza punta alla barriera. Con il rotolo di filo spinato
che ti strappa i vestiti, ti lacera la pelle, si infila nella carne. Assieme alle lame dei coltelli infilate sulla cima come baionette.
I Caronte del nuovo secolo la chiamano la rotta delle Colonne d’Ercole. In onore dell’eroe della mitologia greca, raffigurato da una grande statua che divide i due mondi. Roba per turisti. I trafficanti di schiavi puntano su altro. Soldi e potere. Hanno mezzi e strumenti per soddisfare il mercato. Vittime e carnefici si mischiano
in una realtà dove leggi e diritti non contano nulla, dove si lotta solo per sopravvivere. Su tutto resiste il mito di un’Europa costruito in notti gelide dentro caverne e giorni roventi in mezzo al deserto.
Ai confini occidentali del Mediterraneo sorge l’altra Lampedusa. Due enclave spagnole ricavate sulla sponda africana del Maghreb, segnate da secoli di dominazioni, battaglie, trattative e concessioni. Ceuta, un piccolo promontorio di 18,5 chilometri quadrati con 80 mila abitanti. E Melilla, 12 chilometri quadrati, 70 mila abitanti. Porti franchi: poche tasse, molto commercio, industria peschiera, turismo e tanta polizia. Rappresentano il ponte alternativo per sbarcare nella Vecchia Europa. Se ne parla poco. Perché rispetto all’isola siciliana dove approdano 35 mila immigrati l’anno qui il flusso si aggira sui 20 mila.
Ma è proprio ai confini di queste cittadine, illuminate dal sole africano e bagnate da un mare e da un oceano, che si ammassano i dannati della Terra. I servizi segreti spagnoli sono in allarme. L’assalto alla barriera della spiaggia di Tarajal il 6 febbraio scorso, lungo il confine di 8 chilometri, concluso con 15 morti, colpiti da proiettili di gomma, fumogeni, gas lacrimogeni e poi affogati a tre metri dalla riva, ha aperto la botola della disperazione rimasta chiusa per nove anni. La stessa scena si è ripetuta il 23 febbraio. Per tutta la settimana. Venerdì 28 l’assalto ha visto 300 immigrati decisi a tutto. In 200 sono riusciti a superare la tripla barriera di Melilla. Un successo contagioso. Voci raccolte dai servizi di decine di paesi africani raccontano di un fiume di disperati che risale verso nord.
Le immagini della battaglia mortale del 6 febbraio scorso, registrate da 4 delle 37 telecamere della barriera e messe in rete dal ministero degli Interni spagnolo, le hanno viste anche al Ceti, il Centro
di accoglienza transitorio creato a Ceuta e Melilla nel 1999. Karim, Ibou, Idris, Francois, tutti del Congo Brazeville e del Camerum, ce lo confermano a testa bassa. Attendono fuori dal Centro di Ceuta: 90 operatori per 521 ospiti, uffici, un ambulatorio, un grande refettorio, la cucina, le aule didattiche dove si insegna lo spagnolo, una lavanderia, perfino una palestra. La struttura scoppia: in due settimane si è riempita con 1300 immigrati in attesa della tessera gialla, il visto per rifugiati.Per la maggioranza il viaggio è durato sei mesi. Guinea, Burkina Faso, Niger, Mali, il Sahara, il Marocco. Camion, bus, auto, a piedi. Per mille, spesso 1500 euro. Anticipati. Nessuna garanzia. Niente documenti. Un salto nel buio. C’è chi ci ha provato tre volte e adesso ritenta. Con più esperienza, seguendo sentieri controllati dai trafficanti locali. Gente di “El Principe”, quartiere musulmano di Ceuta che si è ingrossato fino a 13 mila persone e dove vive anche una comunità indù. Un territorio liberato. La polizia spagnola si tiene alla larga. È la base della mafia locale del traffico umano, del contrabbando, della droga.
I 70 mila in attesa del grande salto sono tornati in montagna. Nascosti nelle grotte che sorgono tra i boschi che avvolgono Ceuta e Melilla. Cucinano animali catturati con trappole improvvisate. Alzano cartelli per i cronisti giunti dopo due ore di marcia forzata: «Siamo qui da un anno». Moltissimi africani. Il Marocco sa che ce ne sono a migliaia anche lungo il confine sud dell’Algeria. Accampati allo stesso modo. Ci sono anche indiani, indonesiani, afgani. Gruppi sempre più folti di siriani. Ognuno con la sua Odissea. L’obiettivo per tutti è il nord Europa. Al sud la crisi ha colpito duro. Niente lavoro, niente soldi. L’importante è il “salto”. Verso una nuova vita.
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