by redazione | 1 Marzo 2014 10:05
Andrea Colombo, il manifesto
Salvata sì, ma in libertà vigilata. Con i fucili del governo puntati a garanzia che i crapuloni della Capitale stringano davvero la cinghia. Il consiglio dei ministri, come previsto e annunciato, ha varato il terzo decreto Salva Roma. I soldi ci sono, anche più di prima: 570 milioni di euro. Il bilancio è salvo. Gli stipendi dei dipendenti comunali e i servizi per la popolazione pure. Verranno stanziati tutti insieme, non in diverse rate come nella versione precedente, e non saranno considerati rilevanti ai fini del Patto di stabilità interno.
Le condizioni sono precise e stringenti, ma sono in realtà le stesse già introdotte al Senato con l’emendamento del pd Santini, trasportato di peso nel nuovo testo. Liberalizzazioni e dismissioni, «ricognizione dei fabbisogni di personale» nelle società partecipate, modelli «innovativi» nella gestione dei trasporti, pulizia urbana e raccolta dei rifiuti, vendita del parimonio immobiliare del comune. E poi cessione o messa in liquidazione delle società partecipate, purché «non risultino avere come fine sociale attività di servizio pubblico». L’Acea, cioè il boccone davvero succulento, dovrebbe essere esclusa dalla maxi-dismissione, tanto più che l’emendamento originale escludeva dalla possibilità di cessione le società per azioni, come appunto l’Acea. Ma il percorso parlamentare del nuovo decreto è ancora lungo e non è detto che a qualcuno non venga in mente di riprovare il colpaccio sventato al Senato durante la conversione del dl-bis.
Sin qui, comunque, nulla di nuovo. La mazzata arriva nel finale. Il Comune di Roma dovrà non solo stilare subito un piano di rientro dal debito basato sulle suddette linee guida. Dovrà anche trasmetterlo «ai ministeri dell’Interno e dell’Economia e alle Camere», al fine di «consentire la verifica della sua attuazione». D’ora in poi sarà il governo, cioè il presidente del consiglio, ha esercitare la sua stringente tutela su Roma, a sorvegliare che siano fatti i «compiti a casa». Roma è salva, ma l’ex sindaco di Firenze e attuale sindaco d’Italia sarà a tutti gli effetti anche il suo super-sindaco.
Ignazio Marino, il sorvegliato speciale, deve aver capito l’antifona, tanto più che, dopo le staffilate del governo e il gelo del suo stesso partito, ieri lo avevano preso di mira anche due sindaci di peso targati centrosinistra: Emiliano il Barese e Pisapia il Milanese, che era andato giù severo: «Milano si è salvata da sola». Si spiega così il silenzio in cui si chiude per alcune ore dopo il varo del decreto-ter. E anche quando alla fine prende la parola, dagli studi Raiuno di La vita in diretta, evita accuratamente riconoscimenti o ringraziamenti rivolti al salvatore, che il giorno prima gli aveva ordinato di «evitare piagnistei» e aveva bollato il suo comportamento come «inammissibile». Marino si limita ad affermare di non aver mai preso di mira il premier: «Nessun attacco a Renzi. Ho solo difeso i romani e usato toni severi perché c’era urgenza. La stessa che avvertono i romani. Roma ha diritto ad avere un gettito più alto come tutte le altre capitali del mondo». Poi assicura che «nonostante la necessità di ridurre il disavanzo non alzerò le tasse ai cittadini romani, che hanno diritto di avere servizi all’altezza». Bisognerà vedere cosa ne penseranno i sorveglianti.
La vicenda del decreto, peraltro, è tutt’altro che conclusa. Dovrà ora ripassare per il Parlamento, probabilmente partendo stavolta dalla Camera invece che dal Senato, e la Lega ha martellato ieri denunciando «la vergogna» delle elargizioni a Roma ladrona e promettendo fuochi d’artificio quando il dl riapproderà in aula. Ma probabilmente la stessa Fi, per non parlare del M5S, aprirà il fuoco su un provvedimento che dire di dubbia costituzionalità è poco, essendo proibita anche solo una seconda reiterazione dei dl scaduti. Sempre che non decida di puntare i piedi il capo dello Stato, che aveva già palesato parecchio fastidio ai tempi del secondo decreto.
La riunione del cdm di ieri non si è limitata a parlare di Roma e a nominare una squadra di sottosegretari tra la serie B e la C. Ha anche inserito nel decreto romano lo stanziamento milanese per Expo 2015 (25 milioni), confermato la possibilità per i comuni di alzare la Tasi ed eliminato la Web Tax, che sarebbe entrata in vigore domani ed era stata inserita nella legge di stabilità soprattutto su spinta dell’allora renziano (da ieri pentito) Francesco Boccia. La tassa colpiva le grandi aziende della Rete, come Google, Amazon o Facebook, che in effetti pagano tasse irrisorie. La norma era però considerata molto discutibile dalla Ue ed era nota l’ostilità di Renzi, che appena ha potuto la ha eliminata, promettendo di riparlarne «in un quadro di normativa europea», e ha poi rivendicato con orgoglio: «Sulla Web Tax siamo stati di parola». Boccia la ha presa malissimo. Prima si è detto pentito di aver votato per il l’enfant terrible alle primarie del Pd, poi ha affidato il suo disappunto a un tweet tanto violento da far sospettare alla deputata pd Lorenza Bonaccorsi che si trattasse di un falso: «Renzi è stato di parola sì, ma con gli over the top (le multinazionali della Rete)». Il fatturato dei giganti del web 2012 è stato di 3,2 mld di euro. Il gettito di 6 milioni di euro. Con la norma eliminata da Matteo Renzi sarebbero diventati 137 milioni. Qualche volta è meglio non essere di parola. O fare i conti prima di darla.
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2014/03/campidoglio-sotto-tutela/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.