by redazione | 20 Marzo 2014 9:57
Nonostante un embargo imposto dall’Onu nel 1992, la Somalia resta uno dei più grandi bazar di armi e munizioni al mondo.
Carichi e carichi di questa lucrosa merce non deperibile da ogni angolo del pianeta continuano ad entrare ogni anno attraverso lo stato del Corno d’Africa, ex colonia italiana e britannica, alimentando e alimentati da un cluster di traffici dei signori della guerra locali, fazioni e clan del crimine organizzato interregionale in un modo o nell’altro interrelati con al Shabaab, politici e militari corrotti, corporation internazionali statali e private, shell companies, interessi economici e di controllo del territorio che vedono il coinvolgimento transnazionale – underground — di chissà quali governi e personalità eminenti.
Una sciarada cangiante e polimorfa di traffici illeciti non solo di armi ma anche di scorie radioattive e rifiuti tossici in cui si era imbattuta Ilaria Alpi, carpendone importanti chiavi di soluzione. Per questo fu uccisa insieme a Miran Hrovatin, proprio in Somalia, due decenni fa.
I mandanti e i responsabili di quell’esecuzione non sono certo delle realtà virtuali, hanno invece nomi e cognomi probabilmente anche italiani, e magari occupano anche posti dirigenziali in corporation nostrane o straniere, o siedono sugli scranni di sedi e gabinetti autorevoli. Identità ridotte ad avatar dal segreto di stato e capziosamente custodite in quelle pile di migliaia e migliaia di documenti secretati e lasciati marcire – come dimostrato dall’inchiesta di Andrea Palladino e Andrea Tornago apparsa sul manifesto del 5 marzo scorso — negli archivi. O in quegli stralci di verità sopravvissuti alla volatilizzazione dei faldoni spariti.
Ilaria Alpi non era certo in vacanza quando fu uccisa, come invece ebbe a sostenere l’on. Carlo Taormina — presidente della commissione d’inchiesta sul caso Alpi-Hrovatin — la cui tesi fu respinta con la relazione di minoranza dalle forze politiche di opposizione di cui faceva parte anche l’attuale ministro della Difesa Roberta Pinotti. Indagava invece come inviata del Tg3 su realtà parte delle quali lo tsunami del 2005 ha reso evidenti quando la furia delle onde fece emergere sulle coste somale dagli abissi marini fusti di materiali radioattivo. Armi in cambio di tonnellate di scorie tossiche provenienti dagli scarichi delle industrie e degli ospedali dell’Occidente, tra cui l’Italia. Interconnessioni che emergono in inchieste come quella di Greanpeace del 2010 – The Toxix ships. The Italian hub, the Mediterranean area and Africa — citata da un rapporto Onu del 2011.
Anericani, europei, israeliani
In vent’anni di anarchia politica e istituzionale che hanno fatto della Somalia uno stato non-stato, le armi sono state e vengono tuttora trafficate e riciclate sia dalle milizie di al Shabaab che da esponenti governativi, da soldati e peacekeepers, passando attraverso i confini porosi del Kenya, di Gibuti, dell’Uganda e dell’Eritrea, via aerea e via mare dallo Yemen e dall’Iran e attraverso l’operato di broker – legati o no alla malavita organizzata e agli stati maggiori degli eserciti, diretta appendice di stati e staterelli — e intermediari di nazionalità israeliana, europea e statunitense, come rivelano gli arresti effettuati negli ultimi anni.
Una babele di complicità, connivenze politiche e interessi finanziari in crescita esponenziale di cui ad ora non si intravede — o non si vuole vedere – il vertice.
Secondo il rapporto 2011 del Somalia and Eritrea Monitoring Group (Semg) che agisce su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la maggioranza delle armi arriverebbe via mare dallo Yemen sulla costa nord-orientale somala, in particolare al porto di Bosaaso. Da qui, circa l’80% prenderebbe la strada di Mogadiscio e di altre roccaforti di al Shabaab a sud di Puntland. Il resto sarebbe destinato a sostenere le operazioni di pirateria e i conflitti armati in altre regioni della Somalia.
Gli altri porti nelle aree sotto controllo di al Shabaab coinvolti nei traffici sono quello di Baraawe e Marka, rispettivamente 178 e 70 km a sud-ovest di Mogadiscio, oltre a quello di Chismaio, quest’ultimo fino al 2011, prima cioè che il gruppo integralista ne perdesse il controllo.
Armerie dello stato e mercato
Una volta a Mogadiscio – fino al 2011 almeno quando in seguito all’arrivo dei contingenti Amisom furono trasferite a Dayniile, o in altre aree della città sotto il controllo di al Shabaab — le armi finivano poi sul mercato tentacolare di Bakaara a Irtogte, dove i commercianti sono per lo più affiliati ad al Shabaab e la cui sezione per il loro smercio è soprannominata Cirtoogte «Sky shooter» per il fatto che prima di essere acquistate vengono testate sparando dei colpi in aria.
Stando al rapporto Semg di febbraio 2014, attualmente ci sono infatti altri mercati a Mogadiscio dove a essere smerciate sarebbero non le armi del mercato nero, come avveniva fino ad almeno novembre 2013, ma quelle dei depositi militari nazionali che a fine giornata se non vendute ritornano nei garage degli ufficiali di zona. Fucili e munizioni illegalmente trafugate insomma dalle armerie di stato e incanalate nei circuiti del traffico illecito una volta che la matrice sia stata abrasa. Da questi mercati, le armi arrivano a Galkacyo, il maggior hub di traffici della Somalia centrale, nonché vendute ad al Shabaab in Jubaland.
Dal rapporto Semg 2011 emerge come ad alimentare il commercio di armi a Mogadiscio fossero già allora le armerie governative. A fronte di salari inadeguati – tra i 100 e i 150 dollari al mese — i soldati userebbero le munizioni come moneta, barattandole con cibo, medicine e quant’altro di necessario per mantenere famiglie numerose con non pochi bambini e mogli a carico.
Ma c’è di più, perché ora ad essere accusati di traffico illegale d’armi dagli ispettori dell’Onu sono gli stessi ufficiali dell’esercito e i ministri del governo somalo. A sostenerlo è il Semg nel rapporto del 6 febbraio 2014 secondo cui il governo somalo si sarebbe reso responsabile di «sistematici abusi inerenti la gestione e la distribuzione delle armi». E questo in seguito all’unica ispezione Onu autorizzata dal governo somalo, quella all’armeria di Halale del gennaio scorso. Dai registri è emerso che a luglio e agosto 2013 sono state effettuate due consegne dall’Uganda e da Gibuti. Di queste armi però, ad eccezione delle mitragliatrici Pkm, gli ispettori non hanno trovato traccia, giungendo alla conclusione che potrebbero trovarsi in altri depositi ai quali è stato negato loro l’accesso, molto probabilmente a Villa Somalia, presso la sede presidenziale (dove il 21 febbraio scorso un commando di al Shabab ha fatto esplodere un’autobomba e assaltato la residenza del generale dell’esercito somalo Dahir Aden Indha Qarshe) o si teme distribuite “altrove”, vale a dire a gruppi esterni non facenti parte delle forze di sicurezza somale.
Secondo il rapporto sarebbero due i gruppi d’interesse interni alle strutture del governo che agirebbero per garantire l’approvvigionamento di armi e munizioni attraverso i depositi del Somali national army (Sna) a milizie e a forze di sicurezza parallele extra-governative, tra cui quelle di alShabaab.
Il clan del presidente
Uno di questi due network sarebbe legato al clan Abgaal del presidente Hassan Sheikh Mahmoud. Addirittura, uno dei consiglieri più vicini a questi, dello stesso clan, sarebbe stato coinvolto nella fornitura di armi a un leader di al Shabaab, Sheikh Yusuf Isse «Kabukatukade», anch’egli Abgaal. La strategia, ipotizza Smeg, sarebbe probabilmente quella di garantire il rafforzamento della posizione del clan come base di potere politico e militare per il presidente somalo.
Un ministro, del clan Habar Gedir, avrebbe coordinato tra agosto e ottobre 2013 l’acquisto di armi da uno dei paesi del Golfo e agirebbe insieme a un noto generale dell’esercito nel fornire supporto logistico per la creazione di milizie nelle regioni centrali della Somalia.
Le armi arrivano illecitamente non solo via mare, non solo dallo Yemen e non solo dalle armerie dell’esercito. Ma anche via aerea, dall’Eritrea, dal Kenya e dall’Etiopia per esempio. Nonché attraverso l’opera di broker al soldo di compagnie di sicurezza private di varia nazionalità.
La Somalia riprenderà il controllo del suo spazio aereo de facto nel corso di quest’anno, dopo 22 anni di anarchia seguiti al collasso del governo centrale nel 1991. In questo periodo tale spazio classificato come non-controllato ha significato per gli aerei in arrivo atterrare praticamente in qualsiasi aeroporto senza dover presentare un piano di volo al Civil aviation caretaker authority for Somalia. O magari presentandone solo uno parziale, per il quale ad esempio dichiarare il Mogadishu International Airport come destinazione finale ma riservarsi segretamente uno scalo (non segnalato) in uno degli aeroporti controllati da al Shabaab.
Il 5 marzo 2014, con una risoluzione approvata all’unanimità, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha prorogato di 8 mesi la sospensione parziale dell’embargo sulle armi alla Somalia già accordato un anno fa. Decisione che aveva solo in parte accolto le richieste del governo di Mogadiscio, sostenute dagli Usa, di una revoca invece totale.
Una scelta di coerenza quella del Consiglio di sicurezza così come altrettanto coerenti sono le richieste del governo somalo sostenute dall’amministrazione Usa di una revoca totale dell’embargo. Richieste di chi è consapevole che non sarà l’embargo a frenare né tantomeno ad arginare il traffico illecito di armi e quelli ad esso interconnessi dei rifiuti tossici delle industrie di mezzo mondo sulle coste e attraverso i porti del bazar Somalia.
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