by redazione | 16 Marzo 2014 8:58
I primi reparti militari governativi sono entrati a Yabroud, l’ultima roccaforte dei ribelli nella provincia settentrionale di Damasco, a breve distanza alla frontiera con il Libano. «L’esercito avanza nelle vie principali della città. I ribelli fuggono a Rankous», riferivano ieri testimoni all’agenzia francese Afp. La conquista di Yabroud è un successo importante per Damasco perchè, almeno sulla carta, permette alle forze governative — aiutate da combattenti di Hezbollah, iracheni e iraniani — di interrompere il flusso di aiuti e di miliziani sunniti che dal Libano entrano in Siria per unirsi, in prevalenza, alle formazioni islamiste, e di consolidare il controllo della regione di Qalamoun, tra la capitale e la costa mediterranea.
Tuttavia queste vittorie militari, ottenute a caro prezzo, in termini di vite umane (anche civili) e di distruzioni, difficilmente apriranno la strada alla riconquista delle ampie porzioni di territorio che il presidente Bashar Assad non controlla più da tempo. La guerra civile siriana è un immenso bagno di sangue dal quale nessuna delle parti coinvolte, siriane o straniere, può pensare di uscire vincitrice. E’ una guerra di posizione che ha portato alla frantumazione del Paese. Una guerra che, dopo il fallimento della conferenza di “Ginevra II”, non ha alcuna prospettiva di soluzione politica. Per la semplice ragione che la via d’uscita negoziata non la vogliono gli alleati regionali e internazionali dell’una e dell’altra parte.
Cominciata il 15 marzo del 2011 nella città meridionale di Deraa, sull’onda delle rivolte in Tunisia ed Egitto, in risposta alla brutale repressione da parte dei servizi di sicurezza di gruppetti di ragazzini che avevano scritto su un paio di muri «Il popolo vuole la caduta del regime» e allargatasi a Damasco, Homs, Hama e altre città, la protesta siriana nei mesi successivi, da spontanea e in nome di diritti e libertà, si è trasformata in quel conflitto armato senza misericordia per nessuno al quale assistiamo oggi. Ciò è avvenuto per la repressione portata avanti dal regime e, più di tutto, per l’intervento di Paesi arabi del Golfo. Prima il Qatar, pronto a ripetere quanto aveva fatto in Libia contro Muammar Gheddafi e a portare al potere in Siria gli alleati Fratelli Musulmani. Poi l’Arabia saudita decisa ad abbattere gli alawiti Assad per spezzare la “continuità territoriale” della cosiddetta “mezza luna sciita” (Iran, Iraq, Siria e Libano del sud nelle mani di Hezbollah) e per riportare Damasco sotto il controllo religioso sunnita dopo decenni di baathismo laico e (psuedo) socialista.Dopo tre anni di combattimenti, di crimini commessi dal regime, di atrocità compiute da ribelli, jihadisti e qaedisti (migliaia dei quali venuti da altri Paesi per la guerra santa contro “lo sciita” Bashar Assad), il bilancio è quello di una Siria in ginocchio: oltre 140mila morti, 2,5 milioni di profughi in Turchia, Libano e Giordania, almeno altre sei milioni di persone sfollate, città ridotte in macerie, economia ferma.
L’opposizione siriana, racchiusa in buona parte nella Coalizione Nazionale – guidata da un uomo di Riyadh, Ahmed Jarba — ha ottenuto l’appoggio dell’Occidente e di vari Paesi arabi ma non conta nulla sul terreno. Il “governo dell’opposizione” esiste solo sulla carta e, in ogni caso, non è ascoltato da alcuna delle formazioni ribelli ad eccezione dell’Esercito libero siriano (Els) che, però, perde continuamente pezzi e credibilità. Il “Fronte islamico” (nato alla fine della scorsa estate) che include gran parte dei combattenti anti-Assad e racchiude le formazioni jihadiste siriane, risponde solo al suo sponsor: l’Arabia saudita.
Una situazione di estrema complessità che si traduce sul campo in una Siria fatta a pezzi. Il governo centrale ha il controllo di Damasco, il centro del Paese, le città lungo la costa, di buona parte del sud e della maggioranza della popolazione. Almeno il 60% del territorio però è nelle mani di ribelli e jihadisti che molto spesso si fanno la guerra tra di loro. Nelle province settentrionali di Aleppo e Idlib, l’Els deve vedersela con lo “Stato Islamico in Iraq e nel Levante” che controlla l’area nord-occidentale, la provincia di Raqqa e varie comunità nella zona della seconda città del paese, Aleppo (divisa a metà tra governo e opposizione). Un’altra formazione jihadista il “Fronte al-Nusra”, che al Qaeda ha proclamato suo ramo siriano, controlla parte del territorio ad Est e alcune aree petrolifere. Il territorio nord-orientale è nelle mani dei curdi che devono guardarsi dalle formazioni islamiste. Di fronte a questo quadro di eccezionale gravità umanitaria, politica e militare, è meglio non farsi troppe illusioni: la guerra civile siriana potrebbe andare avanti per altri 10–15 anni e incendiare, come in parte sta già avvenendo, i vicini Libano e Iraq.
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