by Sergio Segio | 15 Febbraio 2014 8:34
Ore 13: Enrico Letta passa la mano. Il colloquio con il capo dello Stato è lungo, un’ora buona, ma del tutto privo di suspense. Ancora giovedì sera il Colle esitava tra crisi lampo e parlamentarizzazione della stessa. Ma quando il premier arriva al Quirinale il dado è già stato tratto. Lo capiscono tutti nel momento stesso in cui il fatale colloquio, inizialmente fissato per le 16, viene anticipato di 3 ore. Segno inequivocabile della decisione di procedere a passo di carica. Ieri pomeriggio le prime consultazioni, i presidenti delle camere, poi quelle dei presidenti del gruppo misto al Senato, Loredana De Petris, e alla Camera, Pino Pisicchio. Oggi il grosso delle delegazioni. Entro lunedì mattina, alla riapertura dei mercati, ci sarà un presidente incaricato. Martedì stesso Renzi otterrà la fiducia.
Dal corteo delle delegazioni mancheranno quella del M5S e della Lega. Uno sgarbo che il Quirinale non può certo prendere bene. Ma l’occasione propagandistica è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Grillo lascia che a decidere siano i gruppi parlamentari congiunti: 62 contro la partecipazione, 17 a favore, 6 astenuti. Poi rincara la dose sfruttando l’argomento di più facile presa che ci sia: «Ricevendo il cavaliere, Giorgio Napolitano lo resuscita».
Anche questa per il presidente è una spina. Oggi Silvio Berlusconi guiderà la delegazione forzista. E’ ovvio che la cosa non faccia piacere all’ospite. Ma presiedere la delegazione del partito di cui è leader indiscusso è nel pieno diritto dell’ex premier, così come lo è stato alcuni mesi fa dello stesso Beppe Grillo. Il Colle non può in alcun modo forzare le regole per impedirlo e nemmeno per suggerire soluzioni più diplomatiche. In questi casi non resta che acconciarsi. Qualche ora dopo il Carroccio si accoda. Maroni ordina: «Stavolta sono d’accordo con Grillo. La Lega non dovrebbe partecipare alle consultazioni». Detto fatto. Salvini esegue.
Ma per Napolitano l’offesa di grillini e leghisti è la preoccupazione minore. Anche Fi, infatti, pur evitando la diserzione, non intende rinunciare alla propaganda facile. Berlusconi fa gli auguri a Renzi, che in fondo, per lui, resta sempre il migliore tra i nemici. Poi però passa ai toni ruvidi: «Questa non è democrazia», «Letta è caduto per vicende del retrobottega Pd». Sopratutto attacca frontalmente quello stesso presidente che oggi lo consulterà, ripetendo che nel 2011 ci fu in Italia un golpe ai suoi danni. Nemmeno questo è precisamente un esempio di bon ton istituzionale. Il peggio, però, è che Fi minaccia di alzare le barricate proprio sulla mancata parlamentarizzazione della crisi, sino a ipotizzare il blocco della conversione di tutti i decreti in scadenza.
In realtà è stato proprio Enrico Letta a far pendere la bilancia dal lato della massima accelerazione. Di farsi umiliare in parlamento, sino al voto di sfiducia del suo stesso partito, non aveva alcuna intenzione. Difficile, anzi impossibile, negargli comprensione. Il passaggio parlamentare sarebbe stato certamente quello formalmente più adeguato e corretto, anche se nella sostanza non sarebbe cambiato nulla. Ma avrebbe significato anche mandare Letta incontro a un massacro certo, e per una volta è difficile dare tutti i torti al capo dello Stato se non ha insistito per imporglielo.
Del resto, al Quirinale hanno contato ben 33 crisi di governo non parlamentarizzate nella storia repubblicana. E’ vero che risalgono quasi tutte alla prima repubblica, quando era questo l’uso comune. Però anche gli ultimi due governi, quello Berlusconi nel 2011 e quello Monti nel 2013, si sono dimessi senza passare per il voto dell’aula, e in quel caso al medesimo Silvio Berlusconi non passò neppure per la mente di star violando gravemente la correttezza propria di una democrazia parlamentare.
Anche Loredana de Petris, ricevuta come presidente del Gruppo Misto ma voce anche di Sel, critica la mancata parlamentarizzazione, ma con toni pacati. Sul governo nascituro, invece, va giù dura: «La maggioranza è la stessa, del programma nemmeno si è parlato. Dalla direzione Pd è uscito solo il ricambio del premier, ma questo non è un concorso di bellezza. Eravamo all’opposizione col governo Letta, lo saremo anche col prossimo».
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