Tagli e privatizzazioni per trattare con l’Ue
BRUXELLES – È quella tabellina, scalpellata dall’Eurostat e dalla Commissione Europea, che rischia di ammazzare un po’ di sogni. «Clausola di flessibilità sugli investimenti?», cioè deroghe ai limiti del deficit pubblico che l’Europa concede ogni tanto, a grandi investimenti produttivi che lei stessa cofinanzia con i vari Paesi? Benissimo, ma ecco che cosa dice quella tabellina: Ungheria, quota di cofinanziamento Ue a fondi strutturali e nazionali, 99%: Lituania, 80%; Romania, 39%; Grecia, 38%; Spagna, 10%. E Italia, 8%. Non un piazzamento di prima linea.
Ma i giochi sono ancora aperti. Forse. Soprattutto dopo che, da Roma, è giunta quella frase del ministro uscente dell’Economia, Fabrizio Saccomanni: «Attenti al cambio di passo». Già alla prima sillaba, a Bruxelles, molte orecchie si drizzano, o fischiano. Perché se quel «cambio di passo» allude a qualche futuro urtone al deficit pubblico, programmato da nuovi (o vecchi) governi in cerca di vero slancio o di semplice popolarità, allora qui la platea è già pronta, completa di chi controlla i biglietti e butta fuori chi non vuole pagare: stasera si riunisce infatti l’Eurogruppo, vertice dei ministri delle finanze della zona euro, e alla stessa tavola ci sarà Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, incaricata appunto di vegliare sulla buona salute dei bilanci pubblici europei. Se qualcuno vorrà «cambiare passo» cioè tastare il limite del deficit fissato per tutti al 3% del Prodotto interno lordo, dovrà chiedere al capo della Bce le indicazioni sul ritmo da tenere. Il primo punto all’ordine del giorno dell’Eurogruppo è «Situazione economica nella zona euro» seguito da altri temi fra cui l’unione bancaria. Poi domani si prosegue con l’Ecofin, il vertice di tutti i ministri delle finanze Ue. Ma già ora, il concetto intorno a cui tutto ruota è ancora una volta la «clausola di flessibilità per gli investimenti», la stessa che da giorni alcune fonti danno per persa nel caso dell’Italia. Angela Merkel, per tradizione, la scomunica come lasciapassare per gli spreconi, ma anche sulle scomuniche è passata la ruspa della recessione, e ora quella clausola la chiedono sottovoce perfino alcuni fra gli alleati più fedeli di Berlino: a partire dall’Olanda. C’è poi chi, come l’Italia, la invoca indicando le ferite ancora aperte negli investimenti pubblici dagli anni dell’austerità più dura: Roma, secondo uno studio ricco di dati appena pubblicato per il centro Bruegel di Bruxelles da Francesca Barbiero e Zsolt Darvas, fra il 2008 e il 2011 ha tagliato del 16% i suoi fondi per i servizi pubblici generali, del 26% quelli per la polizia e l’ordine pubblico in genere, del 14% quelli per la protezione ambientale, del 33% quelli per l’edilizia, del 13% quelli per la sanità. Ha invece incrementato del 42% quelli per la difesa.
La «clausola investimenti» non è un’invenzione nuova. È stata ideata dalla Commissione Europea un paio d’anni fa, e si propone — i tecnici la recitano come un mantra, ma sanno farlo solo loro — di concedere «deviazioni temporanee» dal cammino intrapreso dal deficit strutturale verso gli obiettivi di medio termine di questo o quel Paese, a tre condizioni: che la crescita economica sia negativa; che la «deviazione» non porti a infrangere il rapporto deficit-Pil del 3% fissato per ogni Paese, o a violare le regole sul debito pubblico; e che, infine, come si diceva all’inizio, sia legata a spese pubbliche cofinanziate dalla Ue, come le linee transeuropee ad alta velocità. Tutto questo, sulla carta. Nella realtà, già oggi o domani potrebbe riprendere un accenno di trattativa, anche se non figura all’ordine del giorno. All’inseguimento del premio, il lasciapassare, ognuno mette sul piatto del suo bilancio pubblico quello che ha. Un annetto fa, si diceva che l’Olanda mettesse in gara certi suoi grandiosi progetti sul porto di Rotterdam, il primo d’Europa e il secondo al mondo. Quanto all’Italia, punterebbe a uno 0,3-0,4% in più rispetto all’attuale rapporto deficit-Pil, tuttora ben al di sotto del 3%. E anche se lo spiraglio della spending review potrebbe essersi richiuso per il ritardo di Roma nella comunicazione dei dati a Bruxelles, c’è chi spera in un recupero dell’ultimo istante. E in varie carte da giocare: 9 miliardi in possibile arrivo dalle privatizzazioni, 3 miliardi dalla stessa spending review per il 2014, e così via.
Ma tanta competizione, per uscire un po’ dalle briglie merkeliane, potrebbe anche rivelarsi una delusione: alla fin fine, rilevano per esempio nel loro studio Barbiero e Darvas, la clausola investimenti «non è quasi di alcun aiuto», anche per le complesse regole sul cofinanziamento Eu-governi nazionali. Eppure, uno spiraglio di speranza c’è: «a medio termine, la struttura delle politiche di bilancio Ue dovrebbe essere estesa con una “golden rule” o regola aurea asimmetrica, per proteggere ulteriormente l’investimento pubblico nei momenti di crisi, e limitare gli incentivi avversi nei momenti buoni». Una sorta di rete di salvataggio, ma bisognerà poi convincere i 28 marinai, i 28 Stati Ue, a reggerla tutti insieme.
Luigi Offeddu
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