by Sergio Segio | 13 Febbraio 2014 8:11
Più precisamente, come stabilì l’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, è un paese che “combatte in una categoria superiore” rispetto a quanto indicato dalla bilancia, spesso truccata, che determina il rango di un pugile o di uno Stato.
La Confederazione cambia infatti di valore a seconda dell’unità di misura adottata: con appena 8 milioni di abitanti (di cui quasi un quarto stranieri) in 41 mila chilometri quadrati, è il novantaduesimo Stato per popolazione e il centotrentaduesimo per superficie. Ma è nel club delle venti massime economie planetarie ed è soprattutto la settima piazza finanziaria, con la quinta moneta al mondo quanto a volume di transazioni – il franco svizzero, simbolo di stabilità per antonomasia. È la cassaforte riservata di mezzo mondo (almeno di quello ricco),storicamente fondata sul segreto del cliente, ma che con l’esplosione della crisi finanziaria globale e la necessità per gli Stati di recuperare quote di evasione fiscale si trova sotto schiaffo, bollata con lo stigma della “lista nera” da paesi che spesso coltivano serenamente i propri capitali anonimi. Di qui il braccio di ferro negoziale con l’Italia, che verte sul destino di quei 160 miliardi di euro di provenienza nostrana che secondo Roma sono impropriamente custoditi da banche elvetiche.
Non solo banche, però. La Svizzera schiera grandi aziende globali, coltiva la fama di produttore di qualità (al di là della cioccolata e degli orologi), esibisce tecnologie avanzate e università di punta, come i politecnici di Losanna e Zurigo. Sotto il profilo geopolitico, giocando la carta della neutralità e del pragmatismo, Berna è spesso al centro delle grandi partite internazionali senza troppo apparire, così evitando di esporsi alle conseguenze della sovraesposizione di potenza di cui soffrono quei pesi massimi che non riescono a trattenersi dall’esibire i muscoli.
Insomma, la Svizzera conta. Per questo l’effetto del referendum con cui il 9 febbraio il 50,3% dei suoi elettori ha approvato la volutamente vaga proposta di contingentare l’immigrazione ha suscitato un’onda d’urto intimorosi ternazionale. Specialmente europea. Perché questo piccolo grande paese incastonato nel cuore dell’Unione Europea, cui rifiuta orgogliosamente di aderire, ha di fatto ancorato la sua moneta all’euro e sviluppa oltre due terzi del suo commercio con i paesi comunitari. Sicché limitare la libertà di circolazione delle persone significa rimettere in discussione l’insieme degli accordi e delle prassi che connettono in materie diverse e in variabile
misura la Svizzera all’Unione Europea e ai suoi Stati membri.
Il voto del 9 febbraio non è dunque solo politica interna elvetica, è soprattutto politica europea. Tocca infatti alle diplomazie comunitarie e a quella svizzera sciogliere i nodi del paradosso prodotto da un voto che risponde alla paura dell’invasione straniera – riflesso profondo che di tanto in tanto riemerge in superficie – colpendo di fatto gli materiali di chi si è schierato a favore dell’iniziativa promossa dalla destra anti-europea di Christoph Blocher, blandamente osteggiata dai “poteri forti” e dallo stesso governo di Berna.
L’ex presidente della Banca nazionale svizzera e attuale numero due di BlackRock, Philipp Hildebrand, ha colto perfettamente sul Financial Times i termini del dilemma: «Un paese situato nel cuore dell’Europa ora affronta una dura scelta. Vuole continuare a godere della prosperità che deriva da un’economia profondamente integrata in Europa e accettare la parziale perdita di sovranità politica che ne scaturisce? O preferisce ridiventare padrone assoluto di se stesso, scontando l’abbassamento della qualità della vita conseguente al progressivo distacco dai mercati europei?». In parole povere: la Svizzera può tornare isola o restare giocatore globale. Non le due cose insieme.
La scelta investe la stessa unità nazionale, in un paese multiculturale che almeno a partire dalla prima guerra mondiale entra in tensione lungo le linee di faglia linguistiche – francofonia versus germanofonia, con gli italofoni vicini alla seconda famiglia – ogni qualvolta le acque europee si agitano. Il 9 febbraio abbiamo ritrovato la Romandia più aperta e tollerante versus i tedescofoni dei cantoni “forestali” e i ticinesi italofobi, dell’“inforestierimento” e del dumping sociale alimentato dalla manodopera poco qualificata proveniente da sud.
Dopo le prime reazioni a caldo con relative contromosse dei Ventotto sui dossier negoziali euro-svizzeri e le minacce nemmeno troppo velate di ben più aspre rappresaglie, anche le cancellerie europee dovranno scegliere un percorso, che presumiamo come sempre cacofonico (ognuno per sé nessuno per tutti), con Bruxelles impegnata in un pallido quanto futile esercizio di regia. Il rapporto con Berna in questa partita apertissima – il governo svizzero ha tre anni di tempo per fissare le quote migratorie – sarà un interessante rivelatore di come i membri dell’Unione ne immaginano il futuro. Sotto la pressione di elettorati sempre più scettici quando non fobici nei confronti di “Bruxelles” e insofferenti per “gli stranieri che vengono a rubarci il lavoro”, vedremo probabilmente il fronte nordico, imperniato su Londra, impegnarsi nello smantellamento dei vincoli comunitari. Obiettivo: trasformare l’Ue in un’area di libero scambio. Dove l’aggettivo “libero” non ha valenza universale, visto che non si applicherebbe pienamente ai movimenti delle persone. Resta da stabilire come Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia, pesi massimi
e mediomassimi dell’Unione, vorranno o meno contrastare il riduzionismo britannico-scandinavo.
Non ci stupiremmo se un giorno gli storici stabiliranno che il referendum svizzero ha segnato l’avvio del percorso verso un’altra Europa – o non-Europa – che avrà poco in comune con l’Unione Europea come la conosciamo oggi e nulla con quella sognata dai padri fondatori.
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