Siamo tutti working poor
La condizione lavorativa dei migranti come condizione esemplificativa del lavoro vivo. È questa la cornice che racchiude i contributi del volume Navigando a vista. Gli autori si concentrano su due comunità di migranti, mettendo a fuoco il loro ruolo nell’economia veneta e le loro strategie per gestire le sliding door che regolano l’entrata e la cacciata dal mercato del lavoro. Gli autori fanno inoltre parte di quella genia in via di estinzione costituita da ricercatori che uniscono il rigore «scientifico» alla capacità di stabilire relazioni paritarie con le donne e gli uomini coinvolte nelle loro inchieste sul campo. Sono cioè ricercatori «partecipanti» e tuttavia «partigiani» nell’analisi e nella critica di una realtà lavorativa come è quella dei migranti.
Il loro è dunque un volume prezioso per comprendere il regime di sfruttamento esercitato sui migranti. Ma è altresì importante anche la cornice «teorica» da cui prende le mosse. Conviene cioè compiere un esercizio mentale per capire se la nozione di «lavoratore povero» che ricorre nei saggi del volume possa funzionare anche per i «lavoratori indigeni».
È cosa nota che i working poor sono ormai una presenza stabile in molte realtà nazionali. Una condizione dovuta al fatto che i salari sono al palo da anni, dove la precarietà è la norma e non l’eccezione del rapporto di lavoro. Sono uomini e donne che svolgono contemporaneamente più lavori per comporre salari spesso al di sotto della soglia di povertà. Caratteristiche che sempre più frequentemente ignorano il colore della pelle e il genere sessuato, entrambi elementi diventati nel tempo componenti di una governance del mercato del lavoro che stabilisce gerarchie scandite, questa volta sì, dal colore della pelle, del genere. L’esito è una «balcanizzazione» del mercato del lavoro che mette in primo piano le reti sociali nei quali i singoli sono immersi. Da qui la rilevanza, per i migranti, delle comunità della diaspora che si costituiscono nei paesi ospiti. Comunità che altresì funzionano come istituzioni di un welfare state in dismissione o come agenzie per collocare i migranti nel mercato del lavoro.
Fin qui, niente di nuovo. È un panorama molte volte messo a fuoco dalla ricerca sociale. Quel che invece è poco indagato è che tale caratteristiche non valgono solo per i migranti o per i lavoratori poco qualificati, ma per l’insieme del lavoro vivo.
La diffusione della precarietà, la superfetazione del regime contrattuale più volte denunciato per l’Italia, ma che trova echi anche in altri paesi europei, la compressione salariale, o la corsa al ribasso dei redditi del cosiddetto lavoro autonomo di seconda o terza generazione, riguarda sempre più anche i lavoratori con livelli di qualificazione medio-alta. Da questo punto di vista, tanto i «cognitivi» che i «manuali» esperiscono un generalizzato «impoverimento». E se per gli operai di fabbrica, dei servizi la progressiva riduzione dei diritti sociali è una esperienza divenuta normale, per i «cognitivi», i freelance e gli intermittenti la privatizzazione del «welfare state» è la costante della loro esistenza. Effetto complementare, come ha efficacemente documentato Maurizio Lazzarato ne La fabbrica dell’uomo indebitato (DeriveApprodi), il debito non è da intendersi solo come una dissipazione dei risparmi o nella crescita del credito al consumo, ma come uno meccanismi della governance neoliberista. È questa la «grande trasformazione» che si è consumata nella crisi globale.
Il povero, dunque, è una figura che, con tutte le dovute differenze, coincide con l’insieme del lavoro vivo. Sia però chiara una cosa: è una povertà assai diversa da quella denunciata in alcuni testi dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, veri e propri piccoli gioielli del pensiero critico. Nell’affresco sulla situazione della classe operaia inglese, nei saggi sulla lotta di classe in Francia, nei romanzi francesi dell’Ottocento o nei primi romanzi di Steinbeck la povertà era sinonimo di privazione, di fame, di impossibilità di accedere all’istruzione. Il lavoratore povero di questo inizio di millennio è invece sul filo del rasoio dell’indigenza, della perdita di potere d’acquisto del proprio salario e reddito da lavoro, e dunque di compressione di consumi, mentre l’accesso al sapere e alla conoscenza è fortemente regolato da una retorica del merito che legittima una differenziazione di classe nel sistema scolastico e universitario.
Il lavoratore povero contemporaneo è infatti una figura ambivalente. Vede il suo salario falcidiato, deve fare i conti con un welfare state ridotto sempre più a un sistema di workfare, cioè un dispositivo che subordina l’accesso ad alcuni, esili servizi sociali all’accettazione della precarietà. Deve infine svolgere mansioni dequalificate o, all’opposto, far funzionare con efficienza la macchina dell’innovazione. E tuttavia non accetta la povertà come destino, facendo del debito uno strumento per compensare la stagnazione dei salari. Non c’è dunque traccia della povertà ottocentesca o di quel processo lineare di proletarizzazione che tanto piace a tanta tradizione marxista. Semmai emergono strategie di dissimulazione della «povertà» o di tecniche di autovalorizzazione individuale che non riescono però a trasformarsi in iniziativa politica. E quando esplodono conflitti — come quello della logistica in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia — sono conflitti dal rilevante valore simbolico e materiali che non riescono tuttavia a generalizzarsi.
Il libro Navigando a vista aiuta quindi a definire, partendo dai migranti, una importante cornice in cui collocare le forme contemporanee del lavoro vivo. Il passaggio successivo è modificare la miseria del presente racchiusa in quella cornice.
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