Ricetta spagnola per sbloccare i debiti dello Stato
VALENTINA CONTE, la Repubblica
Due settimane, ha promesso il premier Renzi. Per mettere a punto le norme necessarie a liberare «i 60 miliardi che sono bloccati». Quella parte residua cioè dei debiti di ministeri e soprattutto enti locali verso le imprese fornitrici (91 miliardi in totale, secondo Bankitalia) quasi ossificati da anni di stasi e di cattivi se non assenti pagamenti della Pubblica amministrazione. «In quindici giorni sarà tutto pronto, abbiamo già preparato due emendamenti e in questo la Cassa depositi e prestiti può aiutarci », garantisce Renzi. Ribadendo quanto promesso alle Camere per il voto di fiducia («lo sblocco to-ta-le dei debiti attraverso un diverso utilizzo della Cdp»). E aggiungendo che «vogliamo fare come in Spagna». Dunque passare da una Cdp fin qui solo anticipatore di cassa a sindaci e governatori a una Cdp prestatore di ultima istanza.
Il piano ispiratore c’è già. Scritto da Franco Bassanini, presidente Cdp, e dal professor Marcello Messori già il 6 maggio di un anno fa. Consegnato a Saccomanni e Letta, ma poi accantonato. Forse per un eccesso di timore nei confronti dell’Unione europea, pronta a bacchettare un uso imprudente della Cassa, che però non rientra nel perimetro del bilancio dello Stato (e quindi il suo debito non è debito pubblico, secondo la classificazione Eurostat). Ma che in questo caso potrebbe impensierire i rigoristi di Bruxelles. Con Renzi l’aria sembra cambiata. Sebbene il neo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sia propenso a frenare.
I meccanismi «vanno ancora precisati», ha smussato ieri.
La proposta Bassanini-Messori in realtà è una classica ristrutturazione del debito, accompagnata da una doppia garanzia dello Stato. Le imprese fornitrici cedono il proprio credito alle banche (questa possibilità già esiste grazie al decreto 35 del 2013, inclusa la garanzia pubblica), ad un tasso di sconto massimo del 2% (fissato da una legge recente, il piano è privo di tetto) e un arco temporale non superiore ai 5 anni per il rientro. Le banche
diventano così creditrici della P.a. al posto delle imprese. Ma nel caso in cui le amministrazioni si rivelino insolventi, possono cedere a loro volta il credito alla Cdp (entro limiti annui prefissati, ad esempio 3-5 miliardi). E la Cdp lo accetta senza rischi se garantita – e per legge – dallo Stato (e cioè dalla sua possibilità di mettere tasse). Esattamente come oggi avviene per i mutui che la Cassa concede agli enti locali. A quel punto, la Cdp potrebbe ulteriormente ristrutturare quel credito su un arco temporale più lungo (20-30 anni). E potrebbe utilizzarlo come “collaterale pregiato” per ottenere ad esempio liquidità dalla Bce.
Secondo Bassanini-Messori, un meccanismo di questo tipo sarebbe «sussidiario, diluito nel tempo e neutrale dal punto di vista del debito e del deficit». E questo perché sarebbe riservato ai soli debiti della P.a. di parte corrente (ovvero iscritti nei bilanci passati) e che quindi – a differenza di quelli in conto capitale, cioè le fatture emesse a fronte di spese per investimenti – accrescono il debito, non il deficit, al momento dell’erogazione (all’incirca i 60 miliardi citati da Renzi). Lasciando così inviolato il tetto europeo del 3% tra deficit e Pil. Non solo, scrivono gli autori del piano. L’operazione potrebbe generare non proprio disprezzabili entrate extra pari a 4-6 miliardi di Iva, da utilizzare per coperture una tantum.
Fin qui lo Stato (centrale e periferico) ha pagato 22,4 miliardi alle imprese sui 47 di debiti in via di rimborso, come previsto da due decreti (35 e 102 del 2013). Il totale (stimato in 91 miliardi) in realtà è ancora sconosciuto (la piattaforma digitale è miseramente fallita). Anche su questo (e sui debiti fuori bilancio degli enti locali) Padoan dovrà pretendere alla svelta una ricognizione. O due diligence, come la chiama lui
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