Quei segnali per l’Unione

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 Forse non riusciranno a contenere il vocio brulicante “contro”. Contro l’euro, contro “Bruxelles”, contro la Merkel, contro l’idea che non si possa essere più “sovrani a casa propria”(quando casa nostra dipende dal resto del mondo). Ma questi segnali di recupero ci sono: per una impresa che non è fallita, che continua a meritare investimenti ideali, politici, istituzionali. Quattro di questi segnali sono i più chiari di tutti.
Il primo è quello dell’Unione che si conferma come l’unico agglomerato multistatale del mondo in cui davvero conta il primato di un diritto sovranazionale. Ecco il Tribunale costituzionale di Germania che, appena ieri, si spoglia del suo pregiudizio negativo (sugli acquisti di titoli dei Paesi in difficoltà da parte della Banca centrale europea). E chiede per la prima volta che il giudizio definitivo lo dia una istituzione europea: la Corte di giustizia di Lussemburgo. È il punto del tempo preciso in cui la “posizione semi-egemone” tedesca — di cui parlava Jurgen Habermas su Repubblica — si stempera sino ad annullarsi nella par condicio di fronte alla Costituzione europea.
Il secondo dei segnali di cambiamento è nella proposta, avanzata dall’ultimo Consiglio europeo, di uscire della gabbia d’acciaio di una politica economica basata su una presunzione di validità per tutti e per ognuno dei 28 Paesi dell’Unione. Ora l’idea è che, nel quadro dei grandi orientamenti, vi possano essere contratti bilaterali con ciascun Paese: adattamenti che tengano conto delle diversità di ognuno. E che l’impegno a riforme, così liberamente assunto da ciascuno Stato con l’Unione, abbia come contrapartita incentivi finanziari e flessibilità di bilancio.
Il terzo dei segni di mutamento europeo è nella personalizzazione transnazionale della campagna elettorale, ormai aperta. Sarà infine, come dice il Trattato, il parlamento europeo ad eleggere il presidente di una Commissione, che ha nuovi, rafforzati poteri per la governance economica. Probabilmente sarà come sempre un compromesso: “tenuto conto” del risultato delle elezioni. Ma il fatto importante è che leader come Schultz, Barnier, Tsipras, Verhofstadt si impegnino in nome di movimenti politici che mostrano un passaporto europeo (e non nazionale) e che portano avanti una idea di Europa condivisa (non in un solo Paese). Il loro sforzo vale a “denaziona-lizzare” elezioni da sempre a rimorchio di “appartenenze” domestiche.
Il quarto segnale di una Unione che cambia si è visto nelle giornate interparlamentari di Bruxelles dal 20 al 23 gennaio scorso. È parso chiaro, pur tra tenaci resistenze, che il controllo democratico sul governo economico dell’Unione e la sua stessa legittimazione, stessero assumendo una diversa fisionomia. Non più affidati al solo parlamento europeo ma resi vitali dall’intreccio, con commissioni congiunte, dei poteri dell’assemblea europea con quelli dei parlamenti nazionali. Un sistema parlamentare euro-nazionale: in cui il parlamento europeo vive una sua terza vita (dopo quella della composizione per delegazioni nazionali e dopo quella della separatezza) come pilastro centrale della cooperazione interparlamentare.
Sono questi dunque i segnali di una Unione che riprende fiducia. Essi corrono però ora il serio rischio di essere oscurati dai fumogeni della polemica elettorale anti-europea. Che non è polemica “eversiva”. Mario Draghi — citato da Giorgio Napolitano nel suo gran discorso di Strasburgo — ammette che «il secondo decenio di vita dell’euro», è stato usato «per disfare gli errori del primo». Ma l’attacco all’Europa è, ora, uno straordinario sbaglio politico. A che servirebbe un parlamento europeo che diventi antieuropeo, in assimetria paralizzante rispetto alle altre istituzioni dell’Unione e agli stessi governi e parlamenti nazionali? In Italia — sempre all’avanguardia in questo tipo di invenzioni politiche — lo stiamo già sperimentando un Parlamento con il 25 per cento dei voti nella ghiacciaia del “no a prescindere”. In scala europea, dove sono necessariamente più complicati e fragili gli equilibri istituzionali, sarebbe un disastro.
E toccherà proprio a noi, da giugno a dicembre, presiedere agli effetti del dopo-voto e al rinnovo del pacchetto di nomine istituzionali della Ue. Ecco anche perché è essenziale, per noi e per l’Europa, avere in quei mesi un governo stabile, non insidiato da trappole interne, capace di parlare con la voce della nostra tradizione europeista: che è logica di moto continuo per l’integrazione. La strada è difficile: ma il percorso è in un certo senso già tracciato proprio da quei segnali di ripresa dell’Unione.Primo. Con tutto probabilità la sentenza della Corte di giustizia sugli OMT darà nuova legittimazione alla Banca centrale e alla sua “politica economica” con strumenti monetari. Il disegno di governo della zona Euro potrà acquistare forza e responsabilità. La zona Euro si prospetta così come il modello di governo, concreto e possibile, dell’intera Unione: con l’Eurosummit (il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo); con l’Eurogruppo (il Consiglio dei ministri finanziari); con la stessa Commissione (impegnata nel coordinamento dei bilanci nazionali). Una prospettiva da approfondire senza tabù.
Secondo. I contratti per le riforme tra Stati e istituzioni dell’Unione, nel contesto delle compatibilità europee, dovranno segnare la svolta della differenziazione rispetto all’ossessione delle riforme “lineari”. E per noi è l’occasione di reinquadrare nell’interesse europeo le riforme nazionali del patto di governo: in cambio dei margini di flessibilità finanziaria che ci sono necessari per la ripresa.
Terzo. Ricercando delicati equilibri nella nuova Assemblea europea e nel “pacchetto” delle altre cariche istituzionali, dovremo lavorare per la “parlamentarizzazione” delle esordienti forze politiche di rinnovamento: bilanciandole con la “responsabilità per l’integrazione” delle vecchie famiglie europee.
Quarto. Dovremmo risolutamente schierarci con iniziative concrete, per la cooperazione interparlamentare: convinti che solo dalla compenetrazione dei poteri parlamentari (con il parlamento europeo nel ruolo di federatore) potrà venire in questa fase liquida di transizione, la legittimazione determinante per il governo economico dell’Unione.
Su questi percorsi di lavoro, perfino l’avverarsi dei pessimi pronostici del 25 maggio non potrà fermare una Europa che si muove.


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