New York Times addio
NEW YORK. Ha fatto il corrispondente a Mosca quando crollava l’Unione sovietica, in Sudafrica durante la fine dell’apartheid. Ha diretto il New York Times dal 2003 al 2011, per poi diventarne editorialista. A 65 anni, Bill Keller si cimenta con una nuova sfida: dirigerà una start-up, un sito d’informazione online gestito attraverso una ong no profit. La notizia ha fatto il giro di tutti i media americani, lo stesso New York Times s’interroga se la scelta di Keller s’inserisca in una “migrazione” delle grandi firme del giornalismo verso siti e blog. In questa intervista esclusiva Keller mi spiega i suoi progetti, fa un bilancio della metamorfosi dei media che ha vissuto in prima persona, s’interroga sulle formule vincenti nel futuro dell’informazione.
È la prima volta che lei costruisce un mezzo d’informazione partendo da zero. Che effetto le fa?
«Paura. Ma in un senso positivo… Nella mia carriera ho fatto tante ri-costruzioni, reinvenzioni. Sotto la mia direzione il New York Times si è trasformato: da giornale di carta con un sito Internet come appendice, è diventato un vero media dell’èra digitale, creativo e capace di sperimentare tutte le potenzialità delle nuove tecnologie, con una vera redazione digitale. Ma non ero mai partito dal nulla. Il bello con questa nuova impresa è poter scegliere ogni cosa, le persone, le tecnologie, le storie
da indagare».
Il tipo d’impresa che lei va a dirigere ha dei precedenti in America, pochissimi in Europa. Può spiegare a un lettore italiano che cosa significa un media no profit? Secondo lei è questo l’assetto del futuro, per l’industria dell’informazione?
«È una delle possibili opzioni, non l’unica. Continueranno a esserci giornali che si finanziano con la pubblicità, le vendite, gli abbonamenti. Ma quel modello sta diventando più difficile da sostenere via via che l’informazione cambia piattaforme. Sul digitale la raccolta pubblicitaria è meno redditizia, e lo diventa ancora meno quando dalla lettura su computer si passa agli smartphone. Il no profit ha delle potenzialità, l’esempio più noto qui in America è la National Public Radio:
si finanzia prevalentemente con i doni degli ascoltatori, e delle fondazioni filantropiche. È un altro modo di muoversi: anziché avere l’ufficio pubblicità che va a cercare inserzionisti, devi cercare di convincere giorno dopo giorno gli ascoltatori e le fondazioni a finanziarti».
The Marshall Project, che lei va a dirigere, come prima missione ha l’informazione sulla sistema penale, la giustizia. Si occuperà solo di quello, oppure è un primo passo verso altre tematiche?
«La giustizia criminale è un tema molto vasto. Già il sistema carcerario da solo evoca questioni di classe, di razza, malattia mentale, tossicodipendenze. Il lavoro da fare è enorme, e sono temi che mi stanno molto a cuore. Ma con il primo finanziatore Neil Barsky (a sua volta un ex giornalista del Wall Street Journal che oggi fa venture capital, ndr) siamo d’accordo che se The Marshall Project ha successo possiamo decidere di replicare questo modello per molti altri settori. Per esempio la scuola, la sanità. Il vantaggio di creare dei media tematici, è che il pubblico sa esattamente di cosa andremo a parlare, e ci sono tanti lettori interessati proprio a questi temi. Ovviamente per allargare le nostre audience faremo ampio uso dei social media».
Ecco, a proposito di social network, lei ha diretto il New York Times in un’epoca di trasformazioni a dir poco tumultuose. Prima con l’irruzione di Internet, poi con Facebook e Twitter. Nelle ultime fasi della sua direzione ha visto da vicino l’impatto del “citizen journalism”, i cittadini-reporter sono stati protagonisti all’inizio delle primavere arabe. Poi c’è stato WikiLeaks, un torrente di rivelazioni che in qualche modo venivano da una fonte concorrente rispetto al giornalismo. Che bilancio fa lei, sull’impatto di queste novità?
«Cambiamenti davvero profondi. E prevalentemente positivi. Lasciamo per un attimo da parte il problema del futuro economico dei media, che pure è importante e giustamente preoccupa, e guardiamo agli altri aspetti. Oggi grazie all’accesso digitale 50 milioni di persone guardano il New York Times.
Chi lo avrebbe mai detto, che avremmo potuto raggiungere un pubblico così vasto? Certo sono anche 50 milioni di controllori, che verificano l’esattezza di ogni notizia, e se c’è un errore ce lo segnalano immediatamente. Talvolta questa vigilanza costante è irritante, ci esaspera, ma è una cosa sana. Non possiamo dichiarare la verità da una torre d’avorio, siamo esposti in tempo reale alla reazione dei lettori. Ci sono problemi legati a questa velocità: la pressione per pubblicare la notizia subito, la concorrenza 24 ore su 24, può fare commettere errori. A volte hai bisogno di tempo per indagare, verificare, riflettere, e anche per scrivere una buona prosa. Un altro pericolo è insito nel fatto che oggi il lettore può selezionare la sua dieta personalizzata di notizie, attingendo solo a quelle fonti che lo rafforzano nelle sue opinioni, di destra o di sinistra. Molti media oggi vendono proprio a quel tipo di pubblico, e questo contribuisce alla polarizzazione del sistema politico».
E sull’effetto-Assange, o Snowden?
«Vengo spesso interrogato su questo… Io rimango scettico, non credo che siamo di fronte a qualcosa che cambia durevolmente il giornalismo, o la diplomazia, o le relazioni internazionali. Penso che c’è una tendenza a esagerarne l’impatto. Ci sarà sempre qualche Snowden, qualche insider così arrabbiato e alienato da essere pronto a rischiare la propria libertà pur di divulgare una vasta quantità d’informazioni riservate. La tecnologia ha moltiplicato la loro capacità: ai tempi in cui Daniel Ellsberg divulgò i Pentagon Papers (1971), dovette far fotocopie per settimane e settimane…».
Nel lasciare il New York Times, lei pensa che un giornale di questo tipo possa davvero essere sostituito da siti e blog? Lei sa bene cosa costa avere una rete di corrispondenti esteri, che pure sono essenziali perché i vostri lettori sappiano quel che accade nel mondo. I nuovi media possono sostituirsi in questo ruolo fondamentale per la democrazia americana?
«No, non penso proprio. Chi parla di Old Media a volte lo fa quasi con un sottile piacere, alludendo alla loro estinzione. Ma ci sono delle funzioni insostituibili. Lei ha citato la rete dei corrispondenti esteri, giusto. Io ci aggiungo la capacità di garantire una certa sicurezza agli inviati di guerra. O la forza del nostro ufficio legale nel tener testa al governo degli Stati Uniti, quando vuole negarci informazioni. Siti e blog difficilmente possono dispiegare una simile potenza di fuoco giornalistico. È pur vero che oggi io leggo istantaneamente online quel che accade in Sudafrica, su giornali locali di grande qualità. Ma posso farlo nella misura in cui sono scritti in inglese o in una lingua che conosco. I media coreani non mi sono di alcuna utilità, perché non posso leggerli. Sì, per concludere: c’è qualcosa di molto importante che rischia di andare perduto, se mai dovessimo perdere le grandi istituzioni della carta stampata».
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