by Sergio Segio | 6 Febbraio 2014 9:34
Milano, che come molte grandi città del mondo occidentale ha subìto dagli anni Novanta un cambiamento epocale tuttora in corso, sotto la spinta di un mutamento del modello produttivo caratterizzato dall’abbandono delle collocazioni urbane delle grandi fabbriche, delle infrastrutture di trasporto e distribuzione delle merci e delle grandi attrezzature istituzionali (caserme, mercati generali, fiere, …) sostituite da residenze, uffici e grandi centri commerciali. Essa ha, quindi, da tempo e ampiamente utilizzato tutte le possibilità consentite dagli strumenti di pianificazione negoziata (Accordi di Programma con la Regione e altri enti pubblici e privati, Programmi Integrati di Intervento per lo più proposti da privati) introdotti dal 1992 in poi, per imprimere nelle grandi trasformazioni urbane derivanti dal riutilizzo di aree dismesse dall’uso produttivo o da servizi tecnologici ampie modifiche di destinazione funzionale e quantità edificatorie rispetto alle previsioni del proprio Piano Regolatore. Ciò è avvenuto fissandone arbitrariamente gli indici e le funzioni, sulla base delle convenienze economiche derivanti ai futuri realizzatori immobiliari dal prezzo della rendita fondiaria attesa dalla proprietà dell’area, anziché da un ragionamento di congruenza a un progetto urbanistico di città civilmente pensata.
Questo quadro di deregolazione normativo-legislativa e di crescente aggressività dell’iniziativa immobiliare, passata dal circuito fondiario-edilizio a quello della grande finanza che la salda alla fase di riorganizzazione produttiva, ha caratterizzato la cosiddetta politica del Rinascimento urbano perseguita dalle giunte Albertini/Lupi (1997–2006), prima, e Moratti/Masseroli (2006–2011), poi, che ha costellato tutte le aree dismesse della città di tipologie edilizie estremamente concentrate in altezza e in molti casi con quantità doppie o triple di quelle programmate in precedenza e che, quindi, hanno reso ridicolmente insufficiente il 50% a verde, spesso sbandierato come grande conquista.
In questa visione, ogni tentativo di porre limiti e indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città è stato considerato un’indebita intromissione nelle «magnifiche sorti e progressive» che le forze economiche e finanziarie stavano attuando con la trasformazione delle città, e per la quale ritenevano propria legittima prerogativa non solo proporre quantità e funzioni secondo una propria valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta stimate e una docile adattabilità alle loro eventuali fluttuazioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione atteneva più al carattere della riconoscibilità del marchio o della pubblicità aziendale, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto urbano in cui si collocava l’intervento.
Una fase rispetto alla quale l’attuale giunta Pisapia/De Cesaris non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta, subendo passivamente l’attuazione dei progetti già avviati sulle principali aree di trasformazione urbana (ex Fiera Citylife, Centro Direzionale/Porta Nuova/Garibaldi/Repubblica), e in prospettiva sugli scali ferroviari dismessi, sulle ex caserme, sul riuso delle aree dopo l’Expo 2015, limitandosi a ridimensionare, ancorché sensibilmente, le quantità edificatorie del Piano di governo del territorio (Pgt) adottato dalla precedente giunta di centro-destra, senza però riuscire a cambiarne il carattere liberista e privo di indirizzi strategici, impressogli anche da una dirigenza tecnica avvezza a essere succube degli interessi privati, quando non apertamente collusa, e che non si è avuto la forza e la volontà di avvicendare.
D’altra parte, sotto l’incontenibile appetito di oneri urbanizzativi per tamponare le contingenti esigenze di bilancio, del tutto analogamente si stanno orientando molte amministrazioni comunali dell’hinterland, tra cui l’amministrazione di Sesto San Giovanni, storicamente di sinistra, che nel riuso delle aree dell’ex acciaieria Falck, aderisce a un progetto di Renzo Piano proposto dalla proprietà dell’area con indici edificatori, tipologie e funzioni pressoché identiche a quelle avallate dalle giunte di centro-destra a Milano.
[1]Molti hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che le scelte in corso a Milano e nell’hinterland segneranno il destino urbanistico dell’area metropolitana per i prossimi venti-trent’anni: non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e di dubbia legittimità, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni dei Pgt di Milano e hinterland cesseranno di avere effetto verso il 2016–2018, giusto all’indomani della conclusione del mitizzato evento di Expo 2015.
È forse per questo che attorno alle aree di Expo 2015 gli appetiti speculativi sull’uso finale dell’area (che se resa edificabile potrebbe rendere alla proprietà circa 700 milioni di euro, dopo essere stata acquisita da Fondazione Fiera a prezzi agricoli per circa 60 milioni di euro e rivenduta alla newco regionale Arexpo a 200 milioni di euro) e che hanno aleggiato a lungo nella sotterranea contesa tra i potentati di Cl, della Lega e delle Coop, tornano oggi a rispuntare.
Per quanto grande possa essere il potere di convincimento/condizionamento di una Regione Lombardia persistentemente amministrata dal centro-destra (Formigoni, poi Maroni), nell’ Accordo di programma sull’evento Expo 2015 la decisione sull’uso finale delle aree dopo l’evento resta in capo al comune di Milano, che, dopo aver scelto la linea minimalista di riduzione del danno nell’approvazione del Pgt, ora dovrà finalmente esprimersi sull’opzione strategica del mantenimento a uso pubblico permanente di quell’area o della sua spartizione tra gli appetiti bi-partizan della sussidiarietà cooperativistico-edilizia.
Un banco di prova concreto per verificare, al di là di divisioni ideologiche e schieramenti strumentali, dove risieda la volontà reale delle forze politiche e dei programmi amministrativi di farsi difensori civici dell’interesse collettivo della città.
Infatti, se non si vuole ridurre la discussione sull’assetto urbano che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore, di questo o di quell’architetto di grido, occorre avere il coraggio di rivendicare alle scelte dell’amministrazione pubblica la responsabilità che una collettività si assume nei confronti della conformazione urbana di cui intende dotarsi. Un tempo l’urbanistica progressista vedeva nel contenimento della rendita fondiaria non solo la possibilità di destinare nuove risorse a usi più produttivi e socialmente più utili, ma anche di rivendicare una democrazia nelle decisioni su quel bene primariamente pubblico e collettivo che è l’uso della città, del territorio, dell’ambiente.
[2]Oggi, in questa frenesia di privatismo che nei consigli comunali sembra coinvolgere sia le maggioranze che le opposizioni, nemmeno le idee sono più in libera disponibilità, come accadrebbe in una pianificazione promossa da proposte dall’Ente pubblico. Esse, invece, tendono ad appartenere privatamente a qualcuno. Il comune e i cittadini sono, cioè, liberi di discutere solo le impostazioni progettuali e insediative dell’acquirente con cui il proprietario delle aree ha stretto un contratto, di chi — col più caro prezzo pagato — si è comprato anche il diritto di essere padrone delle idee sulla città e suo interlocutore unico.
*Ordinario di urbanistica, Politecnico di Milano — Dipartimento di Architettura e Studi Urbani
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