by Sergio Segio | 4 Febbraio 2014 9:02
Vietnam, Cambogia, Indonesia, Corea del Sud, Hong Kong, Birmania, Bangladesh, India e naturalmente Cina: cosa unisce in questo recente squarcio del 2013 e inizio del 2014 questi paesi asiatici? Tanti fattori economici, sicuramente, ma soprattutto un elemento socio– economico: le lotte dei lavoratori. Si tratta di battaglie diverse, dagli esiti e dalle dinamiche differenti, ma che insistono su un’ unica direttrice: il miglioramento delle condizioni economiche, la richiesta dei diritti sindacali, l’aumento dei salari e una profonda critica delle condizioni di lavoro. All’interno di queste lotte si celano ulteriori elementi dell’economia globalizzata: produzioni a basso costo che reggono intere economie, delocalizzazione e produzione per grandi brand, uniti ad un modello «fabbrica del mondo» che nasconde le possibilità di innovare, sotto la patina dell’export, business sicuro e richiesto dai grandi brand internazionali. Prato è in Asia, un continente dai mille conflitti, dalle enormi differenze politiche, spesso lontano dalle bussole dell’attenzione mediatica.
Un tempo alcuni di questi paesi, ad esempio Hong Kong, Taiwan e la Corea del Sud, erano stati definiti come le tigri asiatiche: nazioni entrati nell’alveo più duro del capitalismo, in grado di esaltare e raccogliere i consensi dei più noti esponenti del liberismo mondiale. La fine è sempre stata la stessa, le contraddizioni del liberismo si riversano sui diritti delle persone e sulla totale assenza di coperture sociali, provocando in aggiunta disguidi di natura puramente economica, finanziaria, fiscali, retribuitiva, inflazionistica o ambientale. Il sistema non regge. Ma ci sarà sempre, o almeno qualcuno lo spera, una zona franca su cui impiantare fabbriche con sgravi fiscali e assumere a due lire centinaia di lavoratori da inserire in casermoni, laddove la vita lavorativa e quella «normale» si sovrappongono a completo annullamento della seconda.
La crisi occidentale ha spinto ulteriormente al ribasso, almeno quei paesi che hanno fatto delle esportazioni il proprio modello produttivo. Sotto questa coltre di esigenze economiche globali, spesso in grado di creare strambe alleanze tra capitale e regimi politici discutibili, si nascondono le insidie, costituite da nuove classi di lavoratori e lavoratrici che insieme ai salari più alti chiedono anche diritti. E’ una battaglia che non si scopre certo oggi, ma che in Asia ha aperto una nuova stagione di lotte sociali di natura storica.
Negli ultimi anni in Cina si è assistito alle nuove battaglie di quanti vengono definiti «i nuovi lavoratori cinesi»: si tratta di giovani che spesso sono laureati (nell’ultimo anno la Cina ha sfornato il numero record di 7,5 milioni di neolaureati) e che si ritrovano alle catene di montaggio di fabbriche che producono beni di consumo tecnologici, tablet e smartphone, e che al contrario dei loro genitori che avevano accettato qualsiasi condizioni di lavoro pur di uscire dalla povertà, sono invece combattivi e in grado di mobilitarsi, sfruttando proprio quei prodotti che contribuiscono a produrre. Nokia, Apple e tanti altri produttori tecnologici hanno visto all’interno dei loro stabilimenti, scioperi e proteste; Pechino e il governo cinese hanno spinto non poco per gli aumenti salariali, anche perché la strategia della nuova leadership è proprio abbandonare sempre di più la produzione a basso costo, in nome dell’innovazione e del mercato interno.
Significa consentire ai lavoratori di spendere meno per i servizi sociali, per i quali sono al vaglio forme assicurative sul modello americano, e consumare di più i prodotti del mercato nazionale, sgravando i lavoratori anche dei costi sociali determinati dall’esistenza dell’hukou, il permesso di residenza che inchioda il welfare al proprio luogo di provenienza.
Redistribuzione, miglioramento delle qualità, anche a fronte di un invecchiamento della popolazione che crea impensabile sacche di mancanza di manodopera nei polmoni produttivi per l’esportazione cinese. La Cina stessa ormai delocalizza e in patria, per la produzione a basso costo — che non smantellerà di certo in toto — cerca nuovi lavoratori. Anzi, alcune aziende hanno lo straordinario bisogno di mantenere l’attuale forza lavoro. Come ha ricordato il Financial Times, «molte fabbriche in tutto il delta del Pearl River, la «fabbrica del mondo» nel Guangdong, stanno cercando di trovare il modo di non fare andare via i lavoratori. Questa necessità è diventata più importante dato che i cambiamenti demografici — in particolare la politica del figlio unico e una spinta del governo per creare posti di lavori nelle province dell’entroterra — hanno reso più difficile trovare il personale».
Insieme al gigante asiatico — attualmente la seconda potenza economica mondiale — tanti altri brand stranieri trovano nei paesi vicini, lavoro a basso costo, così come situazioni, inizialmente, poco conflittuali. Ma gli eventi relativi a scontri e proteste sono sempre di più. In Vietnam a inizio gennaio undici feriti sono stati il risultato degli scontri tra lavoratori e guardie di sicurezza di un impianto della coreana Samsung. Le motivazioni sono nate da un battibecco tra guardie e lavoratori e sono sfociate in rivendicazioni di migliori condizioni di lavoro.
La dinamica vietnamita, però presenta molti punti di contatto con altri paesi dell’area: le aziende straniere godono di sgravi fiscali per insediarsi in determinate aree, magari depresse o poco utilizzate dai meccanismi di produzione e finiscono per creare città-fabbrica, utilizzando salari bassi. Nel dicembre scorso 130 lavoratori della Thazin Biscuit Factory nella zona industriale del Pyigyidagun a Mandalay, in Myanmar (Birmania) hanno ripreso le proteste fuori dalla fabbrica dopo che un precedente accordo sul pagamento degli straordinari era saltato. Il Dipartimento del Lavoro, aveva promesso di affrontare le loro richieste per una migliore retribuzione di lavoro straordinario e durante le festività nazionali e la domenica, ma tutto pare sia ancora fermo.
O ancora in Indonesia: secondo Global Voice, nel novembre del 2013, «le organizzazioni dei lavoratori hanno indetto uno sciopero generale di due giorni per richiedere al governo l’innalzamento del salario minimo a 334 dollari al mese.
Secondo gli organizzatori, due milioni di lavoratori in 20 province hanno incrociato le braccia. Sono state inoltre organizzate una serie di proteste in tutto il Paese, per richiamare l’attenzione sugli scioperi generali tenutisi poi il 31 ottobre e 1 novembre; tra queste: chiusure di fabbriche e manifestazioni per convincere altri lavoratori ad aderire allo sciopero. Il 21 di ottobre i sindacati sono riusciti a riunire 20.000 lavoratori per aprire un tavolo di dialogo nazionale». Oltre alla questione dell’aumento del salario, i lavoratori hanno avanzato anche altre richieste: aumento del 50% dei salari minimi, copertura sanitaria per tutti, proibizione delle pratiche di outourcing, abolizione della legge antisindacale.
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