Lotte di classe nel cuore delle tigri

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Viet­nam, Cam­bo­gia, Indo­ne­sia, Corea del Sud, Hong Kong, Bir­ma­nia, Ban­gla­desh, India e natu­ral­mente Cina: cosa uni­sce in que­sto recente squar­cio del 2013 e ini­zio del 2014 que­sti paesi asia­tici? Tanti fat­tori eco­no­mici, sicu­ra­mente, ma soprat­tutto un ele­mento socio– eco­no­mico: le lotte dei lavo­ra­tori. Si tratta di bat­ta­glie diverse, dagli esiti e dalle dina­mi­che dif­fe­renti, ma che insi­stono su un’ unica diret­trice: il miglio­ra­mento delle con­di­zioni eco­no­mi­che, la richie­sta dei diritti sin­da­cali, l’aumento dei salari e una pro­fonda cri­tica delle con­di­zioni di lavoro. All’interno di que­ste lotte si celano ulte­riori ele­menti dell’economia glo­ba­liz­zata: pro­du­zioni a basso costo che reg­gono intere eco­no­mie, delo­ca­liz­za­zione e pro­du­zione per grandi brand, uniti ad un modello «fab­brica del mondo» che nasconde le pos­si­bi­lità di inno­vare, sotto la patina dell’export, busi­ness sicuro e richie­sto dai grandi brand inter­na­zio­nali. Prato è in Asia, un con­ti­nente dai mille con­flitti, dalle enormi dif­fe­renze poli­ti­che, spesso lon­tano dalle bus­sole dell’attenzione media­tica.
Un tempo alcuni di que­sti paesi, ad esem­pio Hong Kong, Tai­wan e la Corea del Sud, erano stati defi­niti come le tigri asia­ti­che: nazioni entrati nell’alveo più duro del capi­ta­li­smo, in grado di esal­tare e rac­co­gliere i con­sensi dei più noti espo­nenti del libe­ri­smo mon­diale. La fine è sem­pre stata la stessa, le con­trad­di­zioni del libe­ri­smo si river­sano sui diritti delle per­sone e sulla totale assenza di coper­ture sociali, pro­vo­cando in aggiunta disguidi di natura pura­mente eco­no­mica, finan­zia­ria, fiscali, retri­bui­tiva, infla­zio­ni­stica o ambien­tale. Il sistema non regge. Ma ci sarà sem­pre, o almeno qual­cuno lo spera, una zona franca su cui impian­tare fab­bri­che con sgravi fiscali e assu­mere a due lire cen­ti­naia di lavo­ra­tori da inse­rire in caser­moni, lad­dove la vita lavo­ra­tiva e quella «nor­male» si sovrap­pon­gono a com­pleto annul­la­mento della seconda.

La crisi occi­den­tale ha spinto ulte­rior­mente al ribasso, almeno quei paesi che hanno fatto delle espor­ta­zioni il pro­prio modello pro­dut­tivo. Sotto que­sta col­tre di esi­genze eco­no­mi­che glo­bali, spesso in grado di creare strambe alleanze tra capi­tale e regimi poli­tici discu­ti­bili, si nascon­dono le insi­die, costi­tuite da nuove classi di lavo­ra­tori e lavo­ra­trici che insieme ai salari più alti chie­dono anche diritti. E’ una bat­ta­glia che non si sco­pre certo oggi, ma che in Asia ha aperto una nuova sta­gione di lotte sociali di natura storica.

L’ex fab­brica del mondo

Negli ultimi anni in Cina si è assi­stito alle nuove bat­ta­glie di quanti ven­gono defi­niti «i nuovi lavo­ra­tori cinesi»: si tratta di gio­vani che spesso sono lau­reati (nell’ultimo anno la Cina ha sfor­nato il numero record di 7,5 milioni di neo­lau­reati) e che si ritro­vano alle catene di mon­tag­gio di fab­bri­che che pro­du­cono beni di con­sumo tec­no­lo­gici, tablet e smart­phone, e che al con­tra­rio dei loro geni­tori che ave­vano accet­tato qual­siasi con­di­zioni di lavoro pur di uscire dalla povertà, sono invece com­bat­tivi e in grado di mobi­li­tarsi, sfrut­tando pro­prio quei pro­dotti che con­tri­bui­scono a pro­durre. Nokia, Apple e tanti altri pro­dut­tori tec­no­lo­gici hanno visto all’interno dei loro sta­bi­li­menti, scio­peri e pro­te­ste; Pechino e il governo cinese hanno spinto non poco per gli aumenti sala­riali, anche per­ché la stra­te­gia della nuova lea­der­ship è pro­prio abban­do­nare sem­pre di più la pro­du­zione a basso costo, in nome dell’innovazione e del mer­cato interno.

Signi­fica con­sen­tire ai lavo­ra­tori di spen­dere meno per i ser­vizi sociali, per i quali sono al vaglio forme assi­cu­ra­tive sul modello ame­ri­cano, e con­su­mare di più i pro­dotti del mer­cato nazio­nale, sgra­vando i lavo­ra­tori anche dei costi sociali deter­mi­nati dall’esistenza dell’hukou, il per­messo di resi­denza che inchioda il wel­fare al pro­prio luogo di provenienza.

Redi­stri­bu­zione, miglio­ra­mento delle qua­lità, anche a fronte di un invec­chia­mento della popo­la­zione che crea impen­sa­bile sac­che di man­canza di mano­do­pera nei pol­moni pro­dut­tivi per l’esportazione cinese. La Cina stessa ormai delo­ca­lizza e in patria, per la pro­du­zione a basso costo — che non sman­tel­lerà di certo in toto — cerca nuovi lavo­ra­tori. Anzi, alcune aziende hanno lo straor­di­na­rio biso­gno di man­te­nere l’attuale forza lavoro. Come ha ricor­dato il Finan­cial Times, «molte fab­bri­che in tutto il delta del Pearl River, la «fab­brica del mondo» nel Guang­dong, stanno cer­cando di tro­vare il modo di non fare andare via i lavo­ra­tori. Que­sta neces­sità è diven­tata più impor­tante dato che i cam­bia­menti demo­gra­fici — in par­ti­co­lare la poli­tica del figlio unico e una spinta del governo per creare posti di lavori nelle pro­vince dell’entroterra — hanno reso più dif­fi­cile tro­vare il personale».

Viet­nam, Indo­ne­sia e Birmania

Insieme al gigante asia­tico — attual­mente la seconda potenza eco­no­mica mon­diale — tanti altri brand stra­nieri tro­vano nei paesi vicini, lavoro a basso costo, così come situa­zioni, ini­zial­mente, poco con­flit­tuali. Ma gli eventi rela­tivi a scon­tri e pro­te­ste sono sem­pre di più. In Viet­nam a ini­zio gen­naio undici feriti sono stati il risul­tato degli scon­tri tra lavo­ra­tori e guar­die di sicu­rezza di un impianto della coreana Sam­sung. Le moti­va­zioni sono nate da un bat­ti­becco tra guar­die e lavo­ra­tori e sono sfo­ciate in riven­di­ca­zioni di migliori con­di­zioni di lavoro.

La dina­mica viet­na­mita, però pre­senta molti punti di con­tatto con altri paesi dell’area: le aziende stra­niere godono di sgravi fiscali per inse­diarsi in deter­mi­nate aree, magari depresse o poco uti­liz­zate dai mec­ca­ni­smi di pro­du­zione e fini­scono per creare città-fabbrica, uti­liz­zando salari bassi. Nel dicem­bre scorso 130 lavo­ra­tori della Tha­zin Biscuit Fac­tory nella zona indu­striale del Pyi­gy­i­da­gun a Man­da­lay, in Myan­mar (Bir­ma­nia) hanno ripreso le pro­te­ste fuori dalla fab­brica dopo che un pre­ce­dente accordo sul paga­mento degli straor­di­nari era sal­tato. Il Dipar­ti­mento del Lavoro, aveva pro­messo di affron­tare le loro richie­ste per una migliore retri­bu­zione di lavoro straor­di­na­rio e durante le festi­vità nazio­nali e la dome­nica, ma tutto pare sia ancora fermo.

O ancora in Indo­ne­sia: secondo Glo­bal Voice, nel novem­bre del 2013, «le orga­niz­za­zioni dei lavo­ra­tori hanno indetto uno scio­pero gene­rale di due giorni per richie­dere al governo l’innalzamento del sala­rio minimo a 334 dol­lari al mese.

Secondo gli orga­niz­za­tori, due milioni di lavo­ra­tori in 20 pro­vince hanno incro­ciato le brac­cia. Sono state inol­tre orga­niz­zate una serie di pro­te­ste in tutto il Paese, per richia­mare l’attenzione sugli scio­peri gene­rali tenu­tisi poi il 31 otto­bre e 1 novem­bre; tra que­ste: chiu­sure di fab­bri­che e mani­fe­sta­zioni per con­vin­cere altri lavo­ra­tori ad ade­rire allo scio­pero. Il 21 di otto­bre i sin­da­cati sono riu­sciti a riu­nire 20.000 lavo­ra­tori per aprire un tavolo di dia­logo nazio­nale». Oltre alla que­stione dell’aumento del sala­rio, i lavo­ra­tori hanno avan­zato anche altre richie­ste: aumento del 50% dei salari minimi, coper­tura sani­ta­ria per tutti, proi­bi­zione delle pra­ti­che di outour­cing, abo­li­zione della legge antisindacale.


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