L’inerzia della politica
Conosceremo fra qualche settimana le motivate ragioni per le quali la Consulta ha riconosciuto la iniqua illegittimità di questa legge, responsabile non solo di tante sofferenze per chi è finito dietro le sbarre delle nostre sovraffollate carceri, ma anche della ottusa resistenza all’impiego dei derivati della cannabis a fini terapeutici e di sollievo, ormai accertati in sede scientifica.
Intanto una cosa va detta. La politica si fa ancora una volta sorprendere e scavalcare dalla giurisdizione, che deve intervenire per supplire alla sua inerzia su una questione di grande rilevanza sociale.
Non sono bastati, in questi anni, iniziative, appelli, denunce, di associazioni, gruppi sociali, qualificate personalità del mondo scientifico, tutti consapevoli della necessità di rimuovere il pregiudizio che tiene in vita una legislazione ottusamente proibizionista, incapace di capire, distinguere, razionalizzare. La politica è rimasta sorda, quando non ostile, a questi richiami, e comunque, anche a sinistra, ha mostrato tutta la sua inettitudine e inconcludenza.
Ancora oggi, nel cosiddetto decreto svuotacarceri, in via di definitiva approvazione al senato, non si è andati oltre una norma che, pur apportando qualche attenuazione del trattamento penale dello spaccio di «lieve entità», lascia intatta la equiparazione della cannabis alle «droghe pesanti». Anzi, un emendamento che distingueva tra i due tipi di droghe, proposto in Commissione Giustizia dallo stesso relatore, è stato poi ritirato. Era un’occasione per prevenire, almeno su questo punto, la decisione de giudici costituzionali. Ora invece si dovrà affannosamente inseguirla, per riportare la legge al dettato costituzionale.
La Consulta, nella sua decisione di ieri, non ha bocciato solo la Fini-Giovanardi, ma anche il presidente del consiglio, che nel giudizio si era costituito in sua difesa. Sarebbe saggio — chiunque siederà a palazzo Chigi nelle prossime settimane — trarne un’adeguata lezione, per impostare un razionale intervento riformatore dell’intera disciplina legislativa degli stupefacenti, che vada anche oltre il vecchio testo unico del 1990, cui ora si dovrà necessariamente tornare dopo la decisione della Consulta.
I tempi sono maturi — se la politica avrà orecchie per sentire le voci più consapevoli impegnate sulla questione droga — per riconoscere che l’impianto puramente repressivo della legislazione vigente ha mostrato nei fatti il suo fallimento. Metà della popolazione carceraria sta dietro le sbarre per problemi legati alla droga, il narcotraffico prospera, migliaia di giovani sono alle prese con le burocrazie repressive, penali e amministrative, del consumo di cannabis.
Sarebbe ora di voltare pagina. La decisione della Consulta ha annullato, per ragioni tecniche, soltanto i due articoli della Fini-Giovanardi riguardanti la unificazione sotto la stessa pena di tutti i tipi di droga. Ma la ragione dell’annullamento — la violazione dell’articolo 77 della Costituzione — riguarda l’intera legge. Il legislatore non può ignorarlo, per rispetto della legittimità costituzionale ha il dovere di eliminarla dall’ordinamento giuridico. È l’occasione buona per riscrivere dalle fondamenta una legislazione che non abbia il suo centro nella repressione — da dislocare, nei limi in cui è necessaria, nel codice penale — ma la considerazione delle implicazioni sociali, umane, politiche della questione droga.
Intanto sarebbe necessario rimediare, in via di urgenza, alle più vistose storture della legislazione vigente, cui la Consulta non ha potuto porre rimedio.
È assurdo, per esempio, che si continui a essere puniti con il carcere per la coltivazione in terrazzo di una piantina di marijuana o si debba ricorrere al mercato clandestino per procurarsi il Thc di sperimentata efficacia terapeutica. Simili efferatezze deturpano le sembianze di un ordinamento civile, non sono tollerabili per qualunque coscienza non ottenebrata dal pregiudizio.
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