L’Europa dei cittadini

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L’Europa che impone duris­simi piani di auste­rità a Stati e imprese, ma dove la Bce pre­sta oltre mille miliardi di euro all’1% — un tasso nega­tivo se si tiene conto dell’inflazione — alle ban­che pri­vate. L’Europa dove le ban­che in buona parte respon­sa­bili della crisi pos­sono lavo­rare con leve finan­zia­rie di 60 a 1, ovvero con attivi che sono il 6 mila per cento del loro patri­mo­nio. Ma dove se uno Stato supera il 60% di rap­porto tra debito e Pil va punito.
Un’asimmetria di trat­ta­mento tanto più incre­di­bile in quanto la genesi della crisi non è nelle finanze pub­bli­che, ma nella finanza pri­vata. Fino al 2008, il rap­porto debito/Pil per l’insieme dell’Ue era intorno al 60%, per­fet­ta­mente in linea con i pur discu­ti­bi­lis­simi para­me­tri di Maa­stri­cht. È tra 2008 e 2009 che la situa­zione pre­ci­pita. Lo stesso avviene in Ita­lia, dove il debito/Pil, pur ele­vato, è stato costante o in lieve calo fino al 2007, per poi ini­ziare a risa­lire l’anno suc­ces­sivo. A sen­tire la Troika, quindi, tutti i Paesi euro­pei si sareb­bero com­por­tati bene fino al 2008 per ini­ziare a spen­dere come matti in wel­fare dall’anno suc­ces­sivo. Una spie­ga­zione che suona come una farsa, se non fosse una tra­ge­dia per chi al con­tra­rio oggi si vede tagliare anche i ser­vizi essen­ziali sotto la scure dell’austerità.

Nel 2008 in Europa arriva l’ondata della bolla dei sub­prime. La crisi finan­zia­ria pro­voca una reces­sione, ovvero un calo del Pil, il che fa aumen­tare il rap­porto debito/Pil. Non solo: con la reces­sione dimi­nui­scono i con­sumi, quindi le entrate fiscali e a parità di spese aumenta il debito. Terzo, il debito aumenta per­ché gli Stati devono inter­ve­nire non solo con i piani di sal­va­tag­gio, ma anche per fare fronte agli impatti della crisi, come avviene in Ita­lia con la cassa inte­gra­zione, che tra 2008 e 2009 passa da 250 a oltre 900 milioni di ore. Quarto, c’è una con­cor­renza esa­spe­rata tra Paesi per piaz­zare su mer­cati in crisi una mole cre­scente di titoli di Stato, per­ché ser­vono risorse per sal­vare le ban­che e per soste­nere l’economia. E l’Italia, per rifi­nan­ziare il pro­prio debito pub­blico su mer­cati in crisi, deve offrire tassi di inte­resse sem­pre più alti. Ed ecco lo spread.

Con l’aumento dello spread e la reces­sione peg­gio­rano i conti pub­blici. Le agen­zie di rating ci tagliano il voto, a quel punto i mer­cati «non si fidano più», e per piaz­zare i nostri Btp dob­biamo aumen­tare i tassi di inte­resse, ovvero aumenta lo spread, e via discor­rendo. Per spez­zare que­sta spi­rale, con una Bce che non inter­viene come pre­sta­tore di ultima istanza, non ci sono molte solu­zioni: o tagli le spese o aumenti le entrate. Il che si tra­duce da un lato in auste­rità e i sacri­fici, dall’altro in aumento della pres­sione fiscale e privatizzazioni.

Se la dia­gnosi è sba­gliata, dif­fi­cile che la cura sia ade­guata. L’austerità è il pro­blema, non la solu­zione. Dob­biamo par­tire da una finanza pri­vata che sem­pli­ce­mente non fun­ziona: da un lato è un gigan­te­sco casinò che genera crisi e insta­bi­lità; dall’altro non fa l’unica cosa che dovrebbe fare, ovvero soste­nere l’economia pro­dut­tiva. Le ban­che ita­liane pren­dono oltre 200 miliardi all’1% dalla Bce ma imprese e cit­ta­dini sono stran­go­lati dalla man­canza di accesso al cre­dito. Con le dif­fi­coltà cre­scono le sof­fe­renze delle imprese, il che porta le ban­che a chiu­dere ulte­rior­mente i rubi­netti e spo­stare le loro atti­vità nella sfera finan­zia­ria. Una nuova spi­rale con con­se­guenze peri­co­lo­sis­sime: l’economia reale è ferma al palo ma la finanza con­ti­nua a vedere afflussi enormi di capi­tali. Uno scol­la­mento sem­pre più mar­cato tra fon­da­men­tali dell’economia e valore degli attivi finan­ziari: la defi­ni­zione stessa di una nuova bolla finanziaria.

L’ultima in ordine di tempo riguarda i Brics (Bra­sile, Rus­sia, India, Cina), inon­dati negli scorsi mesi dal denaro facile elar­gito da Fed e Bce alle loro ban­che. Le ban­che euro­pee sareb­bero espo­ste per 3.400 miliardi di dol­lari verso tali Paesi. Se scop­piasse que­sta nuova bolla, chi dovrà pagare il conto? Ver­ranno a dirci che dob­biamo strin­gere la cin­ghia e accet­tare sacri­fici per­ché dob­biamo “resti­tuire fidu­cia ai mercati”?

Dob­biamo ripor­tare la finanza a essere uno stru­mento al ser­vi­zio dell’economia, non un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi nel più breve tempo pos­si­bile. Una sfida cen­trale per l’Europa. Visti gli attuali, delu­denti, risul­tati, il Par­la­mento euro­peo che uscirà dalle ele­zioni di mag­gio dovrò darsi parec­chio da fare per inver­tire la rotta, e per far sì che l’Europa delle ban­che possa tra­sfor­marsi nell’Europa dei cittadini.


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