LE BANDIERE DELL’ISOLAMENTO

by Sergio Segio | 11 Febbraio 2014 7:15

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È probabile che se analoghe consultazioni si svolgessero nei paesi dell’Unione Europea il risultato sarebbe simile, se non ancora più drammatico (quasi la metà dei votanti elvetici si è comunque espressa contro). Le reazioni a Bruxelles e nelle principali cancellerie europee non riescono a celare lo sconcerto per un risultato che mette a repentaglio i rapporti euro-svizzeri.

Ma apre soprattutto un varco nel quale si infileranno le formazioni xenofobe e protezionistiche in Francia come in Germania, in Gran Bretagna come in Italia.
Già alle imminenti elezioni per il Parlamento europeo potremmo trovarci di fronte al trionfo del riflusso particolaristico, con conseguenze imprevedibili sulla legittimazione delle istituzioni comunitarie. Nulla di straordinario in tempi di declino e d’incertezza. Ma una ragione di più per cercare di decifrare il messaggio svizzero. Di cui occorre tenere a mente almeno tre peculiarità che ci riguardano molto da vicino.
Primo. È stato un voto contro l’establishment. Governo, imprenditori, sindacati e mainstream politico-mediatico avevano invitato il popolo sovrano a respingere l’iniziativa promossa dalla destra radicale impropriamente autodefinita Unione Democratica di Centro. Ma le élite si erano mosse senza troppo compromettersi, fiutando l’aria negativa. L’argomento fin troppo razionale per cui la mano d’opera straniera è imprescindibile per il benessere e lo sviluppo della Confederazione non ha fatto abbastanza presa nella Svizzera profonda. Qui ha prevalso la paura dell’“invasione” straniera che minaccerebbe le radici della convivenza in una piccola ma fiera nazione multiculturale e plurietnica, ancora una volta spaccata lungo il Röstigraben, la linea di faglia fra Svizzera francofona e germanofona (ma anche italofona), oltre che fra città e campagne. Un problema di costume e di criminalità transnazionale, ma anche di dumping sociale: gli immigrati di modesta qualificazione professionale accettano salari nettamente inferiori a quelli standard, così sconvolgendo il mercato del lavoro locale.
Secondo. Quando i referendum sono fatti non per decidere su una questione specifica — che sia la scelta fra repubblica e monarchia o la costruzione di un parcheggio pubblico — ma per raccogliere e sfruttare un sentimento popolare, senza offrire un preciso sbocco normativo, gli effetti sono imprevedibili. E facilmente manipolabili. I promotori del referendum “contro l’immigrazione di massa” si sono guardati dallo specificare le quote annuali da introdurre come limite all’ingresso di stranieri, richiedenti asilo compresi. Il governo dovrà fissarle entro tre anni. Insomma, gli svizzeri non possono conoscere le conseguenze del loro voto. Esse saranno determinate dopo un dibattito interno tutt’altro che tranquillo, mentre la diplomazia di Berna cercherà di ricucire lo strappo con l’Unione Europea e con i suoi singoli Stati membri. Si potrebbe anche finire con il reintrodurre i controlli alle frontiere fra la Svizzera e i suoi vicini. Nel frattempo, il clima dell’economia locale — investimenti esteri inclusi — sarà indubbiamente offuscato dal braccio di ferro sull’immigrazione.
Terzo. La schiacciante vittoria del “sì” in Ticino (68,2%) è un indicatore dell’italofobia cresciuta oltre Chiasso in questi anni di crisi. Soprattutto per l’“effetto frontalieri”: nel cantone italofono i lavoratori che passano e ripassano in giornata il confine italosvizzero sono aumentati dell’80% in dieci anni. Ad essi vanno sommati gli oltre 53 mila residenti italiani, su un totale di 341 mila ticinesi, in un cantone nel quale i residenti stranieri soper
no ormai il 26,7% della popolazione. Dumping a parte, persino i più compassati media svizzeri parlano di “turismo criminale”, che accentua il senso d’isolamento dei ticinesi: trascurati da Berna e minacciati dal vicino meridionale. Dunque gli episodi di intolleranza e di xenofobia contro gli italiani si concentrano paradossalmente alla nostra frontiera. Sono invece assai più rari a Zurigo, a Ginevra o a Basilea. Mentre il negoziato fra Roma e Berna sui capitali italiani impropriamente detenuti da banche svizzere segna il passo, c’è da temere per il complesso delle relazioni con un paese che rappresenta il quarto mercato di sbocco del made in Italy, più importante di Cina e Russia messe insieme.
Il tempo non lavora per chi vuole frenare la tendenza alla chiusura reciproca fra europei, che siano o meno parte dell’Ue. In assenza di un chiaro e condiviso progetto europeo, è prevedibile che nei prossimi anni la bandiera dell’Europa — capro espiatorio della crisi — sarà sventolata come un drappo rosso da avventurieri e opportunisti eccitare le fobie e i nazionalismi esclusivi. E così disintegrare quel poco o molto di comune che siamo riusciti a ricostruire sulle macerie di due guerre mondiali. Nessuno potrà dire di non averlo saputo.

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