Le banche tra mercato e corporativismo

by Sergio Segio | 14 Febbraio 2014 10:32

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In Ita­lia le ban­che sono circa 700. Ma da vent’anni è in atto un potente pro­cesso di con­cen­tra­zione del mer­cato: alla fine del 2012 i cin­que mag­giori gruppi (Uni­Cre­dit, Intesa San­Paolo, Monte Paschi di Siena, Banco Popo­lare e Ubi) dete­ne­vano il 49% dell’attivo del set­tore, un valore dop­pio rispetto al 1996.
Le ban­che ita­liane sono arri­vate alla crisi meno finan­zia­riz­zate delle loro omo­lo­ghe euro­pee: l’incidenza dei pre­stiti sull’attivo è circa al 60%, con­tro il 37% inglese, il 28% fran­cese, il 26% tede­sco. Ciò è stata una for­tuna per i rispar­mia­tori e per lo Stato, per­ché ci ha evi­tato i crac visti in altri paesi. Però ha signi­fi­cato da un lato subire tutta la fra­gi­lità del tes­suto pro­dut­tivo ita­liano, e dall’altro patire le carenze mana­ge­riali, orga­niz­za­tive e di gover­nance che da decenni viziano le poli­ti­che di con­ces­sione del cre­dito, i cui nodi son venuti al pet­tine.
Il livello delle sof­fe­renze — cioè dei pre­stiti non resti­tuiti — è giunto a più del dop­pio di quello delle ban­che inglesi, fran­cesi e tede­sche, secondo i dati della Fede­ra­zione ban­ca­ria euro­pea. A giu­gno le par­tite dete­rio­rate (sof­fe­renze e altri cre­diti dalla dif­fi­cile pro­spet­tiva di rien­tro) hanno toc­cato i 300 miliardi, pari al 15% dei pre­stiti totali. La rea­zione prin­ci­pale, anche per indi­rizzo della Banca d’Italia e dei rego­la­tori euro­pei, si è soprat­tutto foca­liz­zata sul recu­pero di patri­mo­nio. Tra 2009 e 2012 l’indicatore prin­ci­pale (Tier1) è pas­sato da un valore medio dell’8,9%, vicino ai minimi rego­la­men­tari, all’11,1%. Un risul­tato otte­nuto però sacri­fi­cando la con­ces­sione dei cre­diti a fami­glie e imprese (ogni pre­stito impe­gna patri­mo­nio, che invece serve «libero»), scesi del 6% tra 2011 e 2013.

L’altra rea­zione difen­siva dei ban­chieri ita­liani è stata la mar­chion­niz­za­zione del con­fronto sin­da­cale. Mana­ger molto pagati, ma spesso non altret­tanto capaci, si son dimo­strati pronti a sca­ri­care sui lavo­ra­tori le inef­fi­cienze delle aziende che gui­dano, senza peral­tro rinun­ciare ai pro­pri pri­vi­legi: secondo l’Eba (l’autorità di vigi­lanza euro­pea), in Ita­lia il numero di top mana­ger ban­cari che gua­da­gnano più di 1 milione è cre­sciuto nel 2012 del 14% rispetto all’anno pre­ce­dente, men­tre la red­di­ti­vità cadeva a picco. I ban­chieri ita­liani hanno una quota di remu­ne­ra­zione varia­bile (col­le­gata ai risul­tati) pari al 30% di quella dei loro pari europei.

Il nostro com­parto ban­ca­rio è ancora troppo «pie­tri­fi­cato» — per citare quel Giu­liano Amato che avviò le libe­ra­liz­za­zioni nel 1993 — tra modelli orga­niz­za­tivi obso­leti, sistemi di gover­nance da prima repub­blica, sac­che di pri­vi­legi. Situa­zioni che la Banca d’Italia affronta troppo timi­da­mente, in attesa del pun­tuale, ma tar­divo, arrivo della magi­stra­tura. Ogni volta per­dendo un po’ della pro­pria auto­re­vo­lezza. Oggi minata anche dall’ultimo pastic­ciac­cio della riva­lu­ta­zione delle quote, che regala 5 miliardi di euro alle due ban­che mag­giori.
La banca di domani sarà altro da que­sto, o dif­fi­cil­mente sarà. Una banca capace di valu­tare l’intangibile, di scom­met­tere sulle rela­zioni e non sulle cor­po­ra­zioni, di coniu­gare le com­pe­tenze dei vec­chi set­to­ri­sti (gli spe­cia­li­sti del cre­dito di un tempo) con le nuove tec­no­lo­gie e i nuovi canali di distri­bu­zione. Per cogliere quella domanda – sana – di cre­dito che c’è. Come dimo­strano i numeri di alcuni ope­ra­tori “ori­gi­nali”, dalle Ban­che di Cre­dito Coo­pe­ra­tivo a Banca Etica, che in que­sti anni han visto cre­scere il pro­prio por­ta­fo­glio cre­diti con tassi a due cifre, man­te­nendo le sof­fe­renze sotto la media del settore.

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