L’AZZARDO DELL’ACROBATA
Prima, puntando al governo, ha guadagnato la leadership del partito con le primarie. Poi, guardando alle elezioni, ha fatto ripartire in quindici giorni il treno delle riforme istituzionali bloccato da anni. Infine, scommettendo sul Pd, ha portato il governo sull’orlo del piano inclinato guardandolo scivolare ogni giorno più giù, fino a diventarne la naturale alternativa.
Nei confronti dell’esecutivo ha usato la formula “né aderire, né sabotare”. Lo ha trattato da governo “amico”, ma non da governo del Pd. Tutto questo ha accentuato la fragilità congenita del ministero, forte dalla cintola in su (per il buon credito di Enrico Letta in Europa), debole in Italia per la gestione troppo prudente di una somma algebrica dei veti incrociati in una maggioranza spuria, con il minimo comun denominatore come risultato. Era inevitabile che il protagonista delle riforme diventasse primattore politico. Era probabile che questo ruolo lo candidasse ad alternativa di governo. Era sperabile che tutto ciò avvenisse in forme e modi po-litici, attraverso un percorso condiviso e guidato da un partito in cui i contendenti si riconoscono e che parla al Paese più dei loro caratteri e dei loro progetti personali. Guida, comunità, condivisione non ci sono state.
Renzi ha badato solo all’opportunità da cogliere, accettando la sfida con tutti i pericoli che comporta. Letta ha reagito all’esaurimento del suo progetto provando a resistere per un giorno, ma la delusione personale non è un progetto politico e non cammina. Soprattutto se a lato cresce la calamita di una leadership forte, che attira a sé i soggetti di una politica debole e promette di dar loro un futuro o almeno quell’orizzonte che finora è mancato.
L’arma usata appare infatti semplice e antica: la promessa del tempo, l’impegno a usarlo per cambiare il Paese. Il sistema politico, parlamentare e istituzionale aveva introiettato il sentimento della propria precarietà, vivendo dall’agonia di Berlusconi in poi su un terreno instabile, con maggioranze innaturali, alleati-nemici, veti incrociati, programmi senza ambizione, elezioni inefficaci, prospettive di breve termine, navigazione a vista. Soprattutto, aveva assorbito come naturale la condanna all’interruzione permanente della legislatura, il ricorso alle elezioni anticipate come rimbalzo continuo più che come rimedio definitivo. Anche oggi, anzi fino a ieri, il cammino del governo e il cammino delle riforme erano destinati a congiungersi a breve in un unico punto terminale, con le Camere sciolte e il ricorso agli elettori, questa volta almeno nella speranza di una nuova legge elettorale.
Renzi ha detto che questo paesaggio poteva cambiare, perché non era una condanna obbligata. Il sistema poteva cioè provare a vivere di vita autonoma, come se fosse normale, impegnando la legislatura fino al suo termine naturale, cioè quattro anni, per provare a cambiare davvero il Paese. Una tentazione irresistibile per i piccoli partiti, terrorizzati dal voto mentre devono ancora definire la loro incerta identità, ma anche per il Pd, che per la prima volta può far pesare per quattro anni la massa dei suoi parlamentari, conquistati grazie al Porcellum: e nel Pd la tentazione è forte sia per la maggioranza che può portare al governo il suo leader e la sua voglia di cambiare, sia per la minoranza che può allontanare il momento della formazione delle liste elettorali nelle mani di Renzi, e può anzi contare intanto su un rimescolamento interno al partito.
Gli alleati — partitini, minoranza Pd — hanno dunque aperto la strada a Renzi, minando il governo in carica. Restavano due ostacoli materiali, Letta e soprattutto Napolitano, che in questo Paese senza maggioranza si è dovuto assumere il compito di Lord Protettore del governo, in nome della stabilità, garantendo sul piano internazionale per l’Italia e proteggendola sui mercati. Di fronte ad un trasloco del quadro politico, che ha cambiato il suo riferimento da Letta a Renzi credendo di trovare qui più forza, più durata, più garanzia soprattutto di dare quello scossone di cui il Paese ha necessità per uscire dalla crisi, il Presidente ha preso atto, ha dismesso il ruolo di protezione necessitata, ha riconosciuto l’autonomia ritrovata della politica e ha detto ai partiti: fate il vostro gioco, purché mi garantiate stabilità, riforme e solidità nei numeri. Il piano delle riforme, il piano del governo diventano a questo punto concentrici, nelle mani di Renzi, con due maggioranze diverse. Il sindaco ha ottenuto in poco più di un mese una sovraesposizione smisurata, quasi più una solitudine che una delega, qualcosa che concentra nelle sue mani buona parte dell’avventura politica del 2014 perché arriva addirittura a interpellare il berlusconismo, all’opposizione del governo, al tavolo per le riforme, alla finestra della curiosità mimetica per l’esperimento della novità renziana davanti alla sterilità politica di una destra con troppi delfini ma senza un erede.
In un sistema politico estenuato che perde forza, efficacia e fiducia a destra e sinistra — per non parlar del centro — è quasi una superstizione da ultima spiaggia questo investimento al buio che tutti fanno in Renzi, come se il Paese avesse toccato il fondo, immobile, e solo l’energia di cambiamento che il sindaco promette potesse farlo ripartire, più ancora di un progetto o di un programma. Se è così, siamo un passo oltre la personalizzazione della leadership: è l’antropologia che oggi viene scelta per dar carattere, natura e sostanza all’agire pubblico trasformandolo in meta-politica, psicopolitica, performance.
In questo senso Renzi non fa promesse di cambiamento, “è” una promessa di cambiamento. Qualcosa di biologico, pre-politico, naturale, addirittura primitivo. Per chi accetta questa scommessa il modo di realizzarla è secondario, conta il dispiegarsi della leadership. Anzi, la contraddizione è parte dell’azzardo, che è una componente della sfida, la quale a sua volta è indispensabile alla rappresentazione in forma nuova di una politica che invece di procedere con prudenza cammina ogni volta sul filo. Si sta col naso all’insù per applaudire l’acrobata alla fine, se ce la fa, ma anche per l’emozione che trasmette il rischio consapevole di vederlo cadere.
Tutto ciò ha delle conseguenze: l’attore politico in questo nuovo teatro è tecnicamente spregiudicato perché gli interessa solo essere se stesso e arrivare in fondo, è quindi disancorato da tradizioni ed esperienze precedenti perché vive della propria leggenda e deve raccontare di continuo solo quella, è ideologico perché la sua forza è la contemporaneità, anzi l’adesione istantanea a tutto ciò che è contemporaneo, senza legami, obblighi e carichi pendenti, come se contasse solo la storia che ogni volta si inaugura, non quella che si è già compiuta.
Questa sollecitazione permanente al cambiamento, in mezzo ai riti stanchi del passato replicati senza vita, appare moderna, anzi innovativa, certamente diversa. Seleziona dunque attenzione e consenso nei due poli opposti, i delusi e gli innovatori, riattiva automaticamente un meccanismo di interesse e di attenzione, spinge a prendere parte. In questo preciso significato, la novità (generazionale, di modi, di forma e di linguaggio) diventa forza, o almeno energia politica, prefigurazione di potere.
Accade quindi che un sistema traballante si affidi a questa opzione, con motivazioni diverse e addirittura contraddittorie: c’è chi spera davvero di cambiare la sinistra, il governo, il Paese; chi si augura che la velocità possa almeno essere un surrogato della politica; chi crede nei nuovi metodi per spazzare le troppe incrostazioni del passato; chi calcola almeno di guadagnare tempo mentre la novità si dispiega e magari si consuma. C’è anche chi progetta di dar corda a Renzi premier in attesa che la premiership lo bruci, o perché non sarà all’altezza o perché l’Italia — definitivamente — non è riformabile. Messa alla prova, l’anomalia renziana potrebbe ridimensionarsi banalizzandosi, fino ad essere riassorbita in una medietà sfiduciata e omologante nella quale si affonda lentamente e definitivamente, tutti insieme.
Prima di prendere il comando Renzi sa benissimo di dover affrontare la contraddizione — grande come le sue ambizioni — che ha costruito tra le sue parole e le opere. Non è tanto il fantasma di D’Alema che lo imbarazza. È piuttosto la mitologia di sé costruita tutta contro il Palazzo e le sue manovre, dove il sindaco era sempre uno sfidante esterno, un outsider che invocava le regole contro le rendite di posizione, puntando tutto sulla democrazia diretta e il rapporto con i cittadini contro gli apparati, in una perenne riconsacrazione dal basso. Andare al governo perché la maggioranza lo ha deciso a tavolino, senza la legittimazione del voto popolare è un problema soprattutto per l’uomo delle primarie. Ma anche per il segretario del Pd che non ottiene l’investitura attraverso la battaglia elettorale, battendo la destra. E infine e soprattutto per il leader della sinistra, che va a palazzo Chigi ancora una volta dall’ascensore di servizio e non dallo scalone d’onore.
L’unica risposta possibile viene dalla prova del nove, dal cambiamento. Se il governo sarà capace di dare una scossa nei tempi, nei modi, nei nomi, nei fatti, allora è possibile che il Paese si rimetta in piedi e che la contraddizione venga scusata dai risultati, perché l’Italia è ancora in grave ritardo davanti alla crisi e non può più perdere tempo: il “tutti per Renzi” si spiega così, finché dura. Altrimenti, la sinistra avrà divorato un altro leader e un’ultima occasione. Per queste ragioni palazzo Chigi per Renzi non è un punto d’arrivo, ma una partenza. E il cambiamento non è un’opzione politica, ma una magnifica condanna.
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