La sicurezza a mani nude
Quarantotto ore per trasbordare un arsenale chimico su una nave che lo distruggerà navigando in gran segreto in pieno mar Mediterraneo. Un processo poco usato nell’industria del trattamento dei veleni, l’idrolisi, che dovrebbe trasformare gli aggressivi chimici in «semplici» scorie pericolose, lontano dagli occhi del mondo. L’operazione verrà eseguita a regola d’arte – assicurano gli esperti – ma sulla carta ci sono tutti gli elementi per far impallidire la fantasia dei peggiori trafficanti di rifiuti nell’operazione decisa dall’Opcw, l’Organizzazione mondiale per la proibizione delle armi chimiche. Portando le lancette indietro di diversi anni, quando i mari del Nord erano solcati da navi inceneritore che bruciavano i Pcb, i policlorobifenili parenti stretti delle diossine.
Se l’orrore — quello della guerra — a Gioia Tauro deve ancora arrivare, la galleria quotidiana della mancanza di sicurezza dei nostri porti si prepara ad accogliere le armi chimiche siriane. E’ una denuncia del sindacato Usb dei Vigili del fuoco — rilanciata da Greenpeace — ad aprire uno squarcio impressionante sulla struttura che dovrà accogliere le sostanze chimiche più pericolose mai immaginate dall’uomo. «Sono anni che il personale non viene più formato in materia Nbcr (Nucleo Batteriologico Chimico Radioattivo, ndr) e per i mezzi acquistati per questo scopo, buttati in capannoni oppure impiegati per altri servizi d’istituto, non è possibile la manutenzione perché mancano i fondi» è la denuncia secca contenuta in una nota diffusa nei giorni scorsi. Non solo. I materiali di protezione individuale — essenziali nella gestione dei carichi pericolosi — sarebbero scaduti da anni, come dimostrano alcune fotografie — non ancora verificate — che il manifesto ha potuto visionare. Scatti realizzati venerdì scorso all’interno dei locali adibiti a magazzino per i materiali del Nucleo Batteriologico Chimico Radioattivo del comando di Catanzaro, capofila per eventuali interventi nel porto di Gioia Tauro.
La situazione mostrata è drammatica. Scatole di tute e filtri scaduti, bidoni di sostanze coperte di polvere e un senso di abbandono generalizzato. «In queste condizioni dovremo garantire la sicurezza durante il trasbordo delle armi chimiche dalle navi che arriveranno dalla Siria verso la Cape Ray statunitense», spiegano alcuni esponenti dell’Usb dei vigili del fuoco interpellati dal manifesto. «Nei prossimi giorni saremo coinvolti in una esercitazione specifica per l’arrivo delle armi chimiche siriane — prosegue il racconto — ma la situazione, al momento, è questa. Se oggi ci fosse un incidente rilevante, l’attrezzatura che ci serve è nelle condizioni mostrate dalle fotografie». Gli stessi sindacati hanno denunciato la disattivazione dello scanner RTM910T — utilizzato per rilevare, tra l’altro, eventuali radiazioni provenienti soprattutto dai rottami ferrosi — «costato 45 milioni di lire». Un’anomalia che potrebbe rendere il porto di Gioia Tauro un approdo «sicuro» per chi gestisce traffici illeciti pericolosi per l’ambiente e i lavoratori addetti alla logistica. A questo punto «è doveroso interrogarsi sulle condizioni in cui sono movimentate di routine sostanze pericolosissime nei porti italiani e altrove», commenta Greenpeace Italia, rilanciando la denuncia dei vigili del fuoco.
C’è poi una partita importante che si aprirà una volta effettuato il trattamento delle armi chimiche sulla Cape Ray, la nave Usa che porterà i veleni in mare aperto per disinnescare gli ordigni siriani. L’idrolisi è infatti un processo delicato, che non elimina le sostanze pericolose presenti nelle armi siriane e produce a sua volta emissioni in atmosfera e nuovi rifiuti pericolosi solidi e liquidi. All’interno di camere controllate installate sulla nave, verranno aggiunti ai gas tossici reagenti in grado di rompere la molecola nociva e creare atomi più semplici e sicuri da trattare. Se tutto va bene – il mare è stato scelto proprio per assicurare la massima dispersione delle ricadute in caso di incidente, che sarebbe comunque disastroso – resta da capire chi si aggiudicherà il trattamento e lo smaltimento finale di quel che resterà dell’arsenale di Assad. Sono pochi gli operatori in grado di ricevere una commessa così delicata e di interesse strategico direttamente dall’esercito degli Stati Uniti. Una di queste è la società Intergreen di Brescia, che da anni ha l’esclusiva nazionale – e non solo – per il trattamento dei rifiuti speciali prodotti dalle basi Nato. Legata alla Compagnia delle opere lombarda, la divisione economica di Comunione e Liberazione, secondo gli operatori del settore Intregreen è una delle principali candidate ad aggiudicarsi lo smaltimento delle scorie delle armi chimiche. Contattata dal manifesto, l’amministrazione della società bresciana ha assicurato di avere perso il contratto con il governo Usa da almeno cinque anni. Anche se sul suo sito web la Intergreen comunica di avere attualmente in gestione «un importante contratto con il Ministero della Difesa Americano per lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti pericolosi prodotti dalle Basi Nato in America e in Italia». Materiale di interesse militare che necessita di discrezione e affidabilità.
Rimane il silenzio assoluto sul tragitto delle due navi incaricate del trasporto delle scorie dalla Siria a Gioia Tauro: i segnali Ais sono fermi allo scorso dicembre, mentre l’ufficio stampa delle compagnie di navigazione spiega che non possono dare nessuna informazione. Tutto tace sul cielo della Calabria.
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