La Madre Russia sognata da Putin va in scena a Sochi

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SOCHI – L’alfabeto cirillico e Pietro il Grande; l’era dei torbidi e i boiardi del falso Dmitri; l’insorpassabile trojka di Gogol e il lago Bajkal; il ballo di Natasha in Guerra e Pace e lo Sputnik; Cekhov e Chagall; Kandinskij e il cinema di Eisenstein: le parate sulla Piazza Rossa e la musica di Borodin; il Lago dei Cigni di Ciajkovksij e l’Uccello di fuoco di Stravinskij; l’industrializzazione sovietica e il balletto; la Chiesa ortodossa e il coro dell’Armata Rossa.
Tutto si tiene nella vicenda della Russia. La storia del continente dei 9 fusi orari e delle 150 nazionalità si dipana indenne attraverso i secoli, nonostante le tante svolte brusche e i radicali cambi di stagione. Un filo rosso lega l’esistenza millenaria di una Santa Madre in grado di abbracciare tutto, perfino il comunismo ateo, per forgiare un’identità nazionale forte e orgogliosa, grande cultura e smisurato senso di auto-percezione.
Concedendosi una cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici kitsch come da copione, ma straordinaria e fantasmagorica oltre ogni immaginazione, Vladimir Putin ha messo in scena una spregiudicata operazione di alto profilo politico, offrendo ai suoi connazionali e al mondo una narrativa discutibile e a tratti reticente, ma coerente e suggestiva del suo potere e della nuova Russia. Un Paese che nell’interezza della sua Storia zarista, bolscevica e post-comunista definisce il teorema di una posizione da protagonista nel concerto delle nazioni, da cui rivendica e pretende uvazhenije , cioè rispetto e considerazione.
Con il titolo «Sogni della Russia», l’happening di ieri sera allo stadio Fisht è stato molto più di una stravaganza pop, animata da 3 mila comparse, illuminata da centinaia di proiettori e trabordante effetti speciali, come la trojka da 66 metri che sbuca dalla tempesta di neve artificiale trascinando il sole. E’ stata piuttosto la sintesi compiuta, scritta nel moderno vocabolario della comunicazione, di cosa intenda il nuovo Zar quando dice che la Russia è tornata. Che poi ci sia uno scarto tra le ambizioni e la realtà, tra la vocazione globale di Vladimir Vladimirovich e le molte debolezze e contraddizioni del suo sistema, questa è un’altra storia. Se nell’amata Sochi Putin ha cesellato il suo racconto, resta tutta da vederne la robustezza e la sostenibilità, economica e democratica, soprattutto interna, alla prova dei fatti.
E’ stata una bambina di nome Ljubov, che nella lingua di Pushkin significa amore, simbolo dell’anima femminile della Russia, a prenderci idealmente per mano attraverso un viaggio di mille anni. E’ stata una cavalcata lungo l’Odissea del Paese, che nella ricostruzione putiniana è partita dagli argonauti, passando attraverso le aperture a Occidente di Pietro I, lo Zar di ferro, per concludersi sulle rive del Mar Nero, con la costruzione dal nulla di un complesso olimpico fantascientifico.
In mezzo c’era di tutto: cattedrali di luce, enormi macchine volanti, acrobati, una Chiesa di San Basilio gonfiabile in scala naturale, i cadetti dell’Accademia Navale al passo dell’oca tra le strade di una San Pietroburgo virtuale e verissima. In uno dei momenti forse più belli della cerimonia, la scena del ballo imperiale di Natasha Rostova, descritta da Tolstoj in «Guerra e Pace», è stata recitata dal vivo dalle stelle del Bolshoi, al suono di un maestoso valzer di Eugene Doga.
Silenzio sulla Rivoluzione d’Ottobre. Ma una mezza citazione leninista: locomotive ed elettrificazione, anche se mancavano i soviet. Poi il balzo industriale imposto dal comunismo, evocato sia nelle forme eleganti dell’avanguardia artistica russa di Rodchenko e Malevich, che nelle statue realiste degli eroi del lavoro e nei profili dei grattacieli staliniani, che ancora oggi segnano lo skyline di Mosca.
Poi è toccato a lui, a Vladimir Putin dichiarare aperti i suoi Giochi. Diana Vishneva ha danzato sulle note del Lago dei Cigni. La bandiera olimpica ha fatto il suo ingresso, portata fra gli altri da Valentina Tereshkova, la prima donna nello spazio. Anna Netrebko ha cantato l’inno.
Il campione olimpionico Ruslan Zakharov ha pronunciato il giuramento a nome degli atleti. Sei tedofori d’eccellenza, tutti medaglie d’oro, hanno concluso il viaggio di 65 mila chilometri della fiaccola: la prima era Maria Sharapova, poi Elena Isinbaeva, Alexandr Karelin e Alina Kabaeva. Si, proprio lei, formidabile ginnasta e amante presunta di Putin. Ma non è stata l’ultima, come alcuni avevano anticipato. L’onore è toccato a Irina Rodnina e Vladislav Tretyak, sulle note di Igor Stravinski.
«Russia dove mai voli tu? – aveva scritto Gogol – Rispondi. Non risponde. Stupendo lo squillo si spande dalle sonagliere; rimbomba e si muta in vento l’aria squarciata; vola indietro tutto quanto è sulla terra, e schivandola si fanno in disparte gli altri popoli e le altre nazioni». E’ il sogno di Vladimir Putin. Ma gli sarà necessario molto più di un’Olimpiade. Che notoriamente dura solo due settimane.
Paolo Valentino


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