Il Pil torna positivo carta segreta del premier

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 STAVOLTA invece è successo senza sparare un solo colpo. È per questo che il tre marzo, il giorno in cui l’Istat darà i prossimi dati sul prodotto lordo, rischia di portare un indizio a cui gli italiani avevano perso l’abitudine: un segno più di fronte al numero del Pil.
Il dato positivo non si riferirà a un anno intero, solo a un trimestre. E il numero non sarà elevato: non dopo una contrazione dell’economia simile per intensità a quella prodotta dalla prima guerra mondiale. Ma a Palazzo Chigi risulta un aumento del prodotto lordo dello 0,3% negli ultimi tre mesi del 2013 rispetto al trimestre precedente. L’Ocse di Parigi vede invece un aumento di 0,3% solo in ritmo annuale: significherebbe che alla fine dell’anno scorso l’accelerazione sarebbe stata di poco meno di uno 0,1%. Cinque volte meno che in Francia, quasi dieci volte meno che in Germania.
Chiunque abbia ragione, si tratta in ogni caso di un’accelerazione annunciata. Il ritmo della recessione si era attenuato in estate. In autunno, l’economia risultava sì in stallo ma non più in contrazione. Da allora la produzione industriale ha fatto un passo in avanti e le richieste di mutui — stima il governo — sono quintuplicate fra febbraio e novembre del 2013. È la prima espansione dell’economia da quando lo spread Bund-Btp a dieci anni è salito oltre i 200 punti, Nicolas Sarkozy negoziava la nomina di Mario Draghi alla Banca centrale europea e un premier di nome Silvio Berlusconi smentiva le “voci di dissapori” con il ministro Giulio Tremonti. Sembra un’era fa, e lo è. Da allora l’economia non faceva che decrescere a ritmi superati solo negli anni dei bombardamenti alleati sulla Penisola.
Il segno più che l’Istat dovrebbe mettere nelle prossime settimane può avere dunque un valore che va oltre l’entità del numero. La tendenza per una volta attira l’attenzione ancora di più. Nei tre mesi fra settembre e novembre la produzione industriale è salita di 0,4%, dopo essere crollata del 25% dai giorni del crash di Lehman Brothers. Nell’ultimo anno gli investitori esteri, che erano fuggiti, hanno aumentato l’esposizione in titoli del Tesoro italiano di 29,5 miliardi (su 2.100 miliardi di debito pubblico). E la posizione debitoria della Banca d’Italia in Target2, il sistema dei pagamenti ufficiale dell’area-euro, si è ridotta di circa un terzo dal record di 290 miliardi toccato nel 2012: per funzionare, il Paese e le sue banche ora hanno meno bisogno di prima della bombola a ossigeno della Bce. Sono segnali sufficienti per dare a Palazzo Chigi una maggiore fiducia sulla direzione dell’economia. Forse non indicano che il pericolo è alle spalle. Mostrano però che il governo e i protagonisti del sistema hanno un’opportunità: agire senza la minaccia continua dell’asfissia finanziaria. Era dalla fase pre-crisi subprime del 2007, che l’Italia non godeva più del lusso di decidere le sue mosse senza la pistola puntata dell’emergenza. In una nota ai grandi clienti di pochi giorni fa, Bank of America- Merrill Lynch notava che nel Paese gli ordini all’export aumentano, il crollo dei consumi si va stabilizzando e fra non molto le imprese dovranno tornare a investire per riempire i magazzini lasciati vuoti da tempo. Bofa- Merril Lynch peraltro vede una crescita di appena lo 0,1% nel 2014 e dello 0,8% nel 2015 — fra le più deboli d’Europa — con debito in continuo aumento.
Il punto nuovo è però proprio nell’occasione che ora si apre di investire un po’ di più, in macchinari e modernizzazione delle istituzioni economiche del sistema. Certo, la tempesta dei Paesi emergenti resta un rischio: con il deprezzamento fra un quarto e un terzo delle loro monete, solo Turchia e Russia possono togliere almeno sei miliardi (il 2%) al fatturato totale del made in Italy. Il problema di fondo però, secondo alcuni, riguarda le risorse per gli investimenti necessari a stare sui mercati globali. Quanto a questo, il credit crunch non accenna a attenuarsi. Giorni fa Fabio Panetta, vicedirettore generale della Banca d’Italia, ricordava che il calo dei prestiti bancari alle imprese è stato di 98 miliardi solo nell’ultimo biennio. Ma Panetta nota anche un paradosso: nel primo decennio del secolo le imprese italiane si sono indebitate ben più di quelle francesi, tedesche o anglosassoni e oggi sono finanziariamente fragili e esposte. Per avere la solidità della media loro concorrenti europee, la Banca d’Italia stima che dovrebbero ricapitalizzarsi per circa 200 miliardi di euro. Missione impossibile? Non se i manager- azionisti rinunciassero per un po’ a gratificarsi con 60 miliardi di dividendi l’anno, come fanno oggi. Sergio Squinzi, leader di Confindustria, può infatti prendersela con la paralisi della politica. Ma senza scelte oculate degli industriali, la mini- ripresa del Paese sarà costellata di imprenditori ricchi in imprese povere e incapaci di competere.


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