Il grande business degli Ayatollah

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TEHERAN. «Qualsiasi governo è un interlocutore accettabile a patto che dimostri rispetto», firmato Ruhollah Khomeini: una nuova citazione del fondatore della Repubblica islamica è apparsa sui cartelloni che fiancheggiano le autostrade che attraversano la capitale. Ed è una frase insolita, almeno per gli occidentali che generalmente hanno una visione stereotipata del pensiero di Khomeini, che invece cambiava spesso prospettiva. Cosa che ha permesso poi ai suoi successori di tirare le sue idee da una parte o dall’altra per avallare le loro agende politiche. «Il popolo è preoccupato che non ci sia equilibrio tra quello che abbiamo dato e quello che abbiamo ricevuto con l’accordo di Ginevra perché l’America per sessant’anni ha ignorato gli interessi del popolo iraniano. Ma se la politica di minacce cessa e gli americani parlano con noi con rispetto, da governo a governo, il dialogo è giusto e nemmeno il Leader Supremo è contrario», dice l’hojatoleslam che pronuncia la preghiera del venerdì alla moschea di Mosalla.

Soprattutto, continua il religioso, l’accordo apre la strada alla revoca delle sanzioni che strangolano l’economia iraniana. I fedeli smettono di scandire Marg bar Amrika, “Abbasso l’America”, come automaticamente avevano cominciato a fare.
È venerdì mattina e alcune centinaia di persone sono venute a Mosalla nella nuova moschea dedicata a Khomeini che si dice sia la più grande del mondo e dove è stata trasferita, dal campus dell’Università, la preghiera del Venerdì. Sono venute in maggioranza persone di mezz’età e di modesta condizione sociale. I giovani, le famiglie con bambini, preferiscono sfruttare il giorno di vacanza per riversarsi sulle montagne imbiancate che circondano Teheran e liberarsi per qualche ora della campana di aria gialla di smog ferma da mesi sulla capitale (su Facebook è comparsa di recente anche una foto del presidente Rohani che fa trekking in tenuta da montagna e col berretto invece del turbante). «Centodiciassette delegazioni hanno già visitato il paese negli ultimi mesi e portato 4 milioni di dollari d’investimenti» ha detto alla tv Rohani, il presidente moderato che è stato eletto perché gli iraniani volevano un riformatore e il regime ne aveva bisogno per uscire dall’isolamento. «Mettere fine alla recessione è la cosa più urgente, prima ancora di porre mano all’inflazione, che comunque con il suo governo è scesa di 8 punti al 35 percento il mese scorso». L’intervista alla tv del presidente era stata annunciata come una «discussione live del presidente con il popolo iraniano», ma a qualcuno tanta apertura non è piaciuta e la trasmissione è stata dapprima bloccata dal capo della Irib, la televisione di Stato, poi è iniziata con notevole ritardo a cui il presidente ha accennato rispondendo alle domande degli intervistatori, dicendo però che non era il caso di approfondirne le ragioni.
La predica dell’hojatoleslam verte sugli interessi nazionali: la politica deve seguirli, afferma. Anche la Guida Suprema, ayatollah Khamenei, ha ribadito la propria fiducia nel governo del presidente Rohani e nella sua conduzione delle trattative con l’Occidente sulla questione nucleare. «I critici devono imparare la tolleranza nei confronti del governo e dargli tempo», ha detto Khamenei. Sui giornali ultraconservatori sono rimbalzate le critiche all’accordo di Ginevra, considerato troppo favorevole all’occidente e capace di mettere in pericolo il programma nucleare (beninteso civile) dell’Iran, che per gli iraniani è diventato il simbolo irrinunciabile dell’ingresso nella modernità.
«Se il collasso dell’economia è dovuto per metà alle sanzioni, per l’altra metà o più è dovuto alla politica economica dissennata degli otto anni di Ahmadinejad e alla corruzione», dice l’economista Said Leylaz, un riformatore che era stato sottosegretario con Khatami e poi a capo di un settore dell’industria automobilistica Khodro, ma dopo il 2009 era stato messo in prigione per tredici mesi di cui quattro passati nell’assoluto isolamento. «Con Marx si potrebbe dire che è stato il tentativo di creare una nuova classe, dalla generazione dei fondatori della Repubblica islamica a quella di chi ha combattuto la guerra contro l’Iraq. Mai si era vista una corruzione di questa portata ». Molti alti funzionari sono in questo momento indagati, il caso più eclatante è quello di Said Mortazavi, temuto procuratore generale di Teheran prima di diventare il capo di un equivalente iraniano dell’Inps, accusato di aver trasformato la previdenza sociale in una megaholding con interessi (personali) in banche industrie e ovviamente
petrolio.
Il cellulare di Leylaz squilla in continuazione, sono investitori che gli chiedono pareri: da Hongkong una banca d’investimento chiede quali siano le azioni iraniane attualmente più consigliabili. «Se gliele avessi proposte qualche mese fa se mi avrebbero riso in faccia» sorride. «Il mercato iraniano è oggi l’arrosto più appetitoso al mondo». L’industria del petrolio non è stata modernizzata da trent’anni, e avrebbe bisogno di investimenti per almeno 150 miliardi di euro. Le raffinerie producono benzina di qualità così scarsa che l’inquinamento ha raggiunto livelli insopportabili. Le compagnie aeree hanno bisogno di minimo 50 nuovi aerei, e metà delle automobili in circolazione hanno più di 25 anni. La produzione automobilistica è crollata da 1,7 milioni di veicoli nel 2011 a mezzo milione del 2013 e Teheran spera di risalire al livello del 2011 entro due anni.
Nella grande sala rotonda sovrastata, a destra e a sinistra del palco, dagli immensi ritratti dell’imam Khomeini e della Guida Khamenei, c’è il fior fiore dell’industria francese. Safran, Airbus, Total, Gdf-Suez, Peugeot, Renault, Alcatel, Alstom, Amundi, Oréal. Centoquaranta uomini d’affari francesi sono arrivati a Teheran per esplorare possibili intese con gli iraniani. Peugeot, che ha cessato le attività nel 2012, nel 2011 aveva venduto in Iran 458.000 vetture, un terzo del mercato automobilistico, dice il suo rappresentante Jean Baptiste de Chatillon, ed è pronta a tornare in Iran. Per ora si tratta solo di progetti, sottolineano tutti, in attesa della conclusione positiva dell’accordo di Ginevra, ma molti ammettono che «i cassetti sono già pieni di carte firmate, perché negli affari conta arrivare per primi». Il governo americano è così preoccupato che gli europei facciano affari senza aspettare l’accordo definitivo che hanno spedito in Europa il sottosegretario David Cohen a ricordare a tutti che le sanzioni sono ancora in vigore. Ma anche il business americano freme, vuole riacquistare il predominio che aveva sul mercato persiano prima della rivoluzione: Exxon, Chevron, General Motors stanno già trattando attraverso i loro rappresentanti in altri paesi.
L’accordo di Ginevra, della durata di sei mesi, è entrato in vigore il 20 gennaio. I negoziati per arrivare a quello definitivo saranno «molto difficili», ha avvertito il segretario di Stato Kerry, ma qui tutti sono convinti che ci si deve arrivare per forza: alternative non ce ne sono, non ci sarà un’altra marcia indietro come nel 2005, quando l’accordo sul nucleare era a portata di mano ma non si fece. E sì che allora sarebbe stato facile: l’Iran aveva poche centrifughe, mentre oggi ne ha 19mila.
Alla Camera di Commercio Industria Miniere e Agricoltura sulla via Taleghani non si vedeva da tempo tanto movimento, dice un funzionario che da giorni va e viene dall’aeroporto per ricevere le delegazioni straniere. Sono venuti i turchi, gli italiani, i finlandesi, gli irlandesi. Le tedesche Siemens, Linde e Basf sono in arrivo e così le compagnie petrolifere britanniche e giapponesi. «In gennaio ci sono già stati più visitatori dall’Europa che in tutto il 2013». Tutti si preparano per quando l’Iran tornerà a essere un paese normale sulla scena internazionale: il potenziale di un mercato di oltre 75 milioni di abitanti, affamati di lavoro e di prodotti occidentali, in un paese che è il quarto al mondo per riserve di petrolio e il secondo per quelle di gas, fa gola a chiunque cerchi opportunità di investimenti a lungo termine.
«Dopo Ginevra il clima è completamente cambiato» conferma Ido Picchioni dell’Ansaldo, che ha tenuto l’avamposto anche dopo che tutti gli altri businessmen italiani se n’erano andati via. Picchioni è arrivato a Teheran tanti anni fa pensando di starci qualche mese e non se n’è più andato, ha una moglie iraniana, e come tutti quelli che si sono trovati a vivere in questo campo elettrico tra due mondi ostili, trova difficile comprendere l’immagine tutta negativa che l’Occidente si è fatto dell’Iran. Dopo il 24 novembre quell’immagine si è finalmente rischiarata. «Ma ci vorrà comunque del tempo perché i nuovi contratti si realizzino», dice Picchioni. Tempo e sicuramente anche fiducia. Fiducia della politica che entrambe le parti questa volta terranno duro fino in fondo. E fiducia anche del popolo iraniano in un percorso di cambiamento interno che, ha avvertito in questi giorni Rohani, non sarà né breve né facile. Gli iraniani e il mondo dovranno avere pazienza.


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