Il duro scontro a Palazzo Chigi: Matteo, io non cerco seggiole
ROMA — Martedì notte, mentre usciva da una trattoria molisana al Testaccio al braccio della moglie, Enrico Letta si è imbattuto in una giovane coppia. Il ragazzo si è avvicinato e lo ha spronato a non fermarsi: «Vai Enrico, che ce la fai!». E il premier, con un sorriso velato di tristezza: «Magari… Purtroppo non tutti la pensano come te». Un «tutti» che, nella riflessione amara del premier, esclude gli italiani. Perché Letta da giorni compulsa i sondaggi e si è convinto che gli elettori siano dalla sua parte. E se stasera rassegnerà le dimissioni la responsabilità sarà di tutti coloro che gli hanno «voltato le spalle» per dare vita ad una «macchinazione di palazzo e di poteri». La lista del premier è lunga e in cima, dopo il nome di Matteo Renzi, c’è quello di Dario Franceschini.
A Palazzo Chigi, l’altra sera, in tanti hanno sentito filtrare dalle porte ben chiuse dello studio del premier gli echi del durissimo «chiarimento» con il ministro per i Rapporti con il Parlamento. Di lui Letta si è fidato fino all’ultimo, per comprendere solo tardivamente quel che gli amici gli andavano dicendo da tempo: «Io ti ho creduto Dario, quando giuravi che quelle riunioni con i dirigenti renziani e con i leader dei partiti le facevi per il mio governo… E invece no, scopro che trattavi per il governo Renzi. Mi hai pugnalato alle spalle». Raccontano che Franceschini (i lettiani in Parlamento lo chiamano «giuda») abbia lasciato lo studio del premier come una furia. «Se il miracolo accade e il mio governo riparte — ha giurato a se stesso Letta — una sola cosa è certa, Dario non sarà più ministro». E c’è un’immagine che sigilla la fine di un sodalizio politico: ieri mattina, senza troppo curarsi dello sguardo dei cronisti tra le sbarre del cancello, Franceschini era lì nel cortile di Palazzo Chigi che si faceva le foto con la smart azzurra, alla guida della quale era arrivato il leader del Pd.
Il duello finale con il premier è durato un’ora. «Incontro franco» scherza Letta, lasciando filtrare quanto ruvido sia stato il colloquio. Muro contro muro. Renzi gli ha chiesto per l’ultima volta di mollare, criticandolo per non averlo ancora fatto e offrendogli come buonuscita un paio di prestigiose poltrone. Ma il premier, punto nella dignità politica, è stato irremovibile: «La Farnesina? L’Europa? Tu scherzi Matteo, io non sono come te. Io non cerco seggiole. Non accetto compromessi e faccio un passo avanti, non indietro. Se vuoi il mio posto devi sfiduciarmi e dire agli italiani perché il mio programma non va bene. Altro che governo dei rinvii, sei tu che hai stoppato il rilancio! E ricordati che non hai alcuna investitura popolare, rischi di pagare un prezzo altissimo».
Concetti che, rimbalzati in Parlamento, hanno messo in allarme la minoranza del Pd. L’idea di dover sfiduciare Letta con un voto in direzione o, ipotesi ancora più estrema, nelle aule di Camera e Senato, ha seminato il panico tra i democratici. La reazione della sinistra di Cuperlo ha generato un sottile filo di speranza a Palazzo Chigi. Che faranno i bersaniani? Messi alle strette, volteranno anche loro le spalle al premier? Letta e l’ex segretario si sono parlati e Pier Luigi Bersani, da Piacenza, si è attaccato al telefono per convincere i suoi a dare un’altra chance all’amico di una vita. «Se si apre una breccia a sinistra non tutto è perduto» sperano i lettiani, che guardano con un briciolo di fiducia ancora ad Alfano.
Ma il premier, dopo la reazione orgogliosa nella sala dei Galeoni, si mostra più realista. Sa bene che il pertugio per una crisi pilotata che porti al Letta bis è strettissimo e che la palla è nelle mani di Renzi: solo lui può decidere se traslocare in una manciata di ore a Palazzo Chigi, oppure frenare la smart in corsa a rischio di cappottarsi. E sa anche che il suo partito potrebbe salvarlo oggi per tradirlo domani, bruciando le sue carte presenti e future. Come? Non sfiduciandolo oggi in direzione e consentendo la nascita del secondo governo Letta, per poi farlo cadere in Parlamento sulla prima buccia di banana. Scenari e retroscena dei quali il premier non vuole sentir parlare: «Io vado avanti, da uomo del Pd». Letta non vuole terremotare il suo partito, né andare contro le aspettative di Napolitano. Oggi parlerà alla direzione, ascolterà Renzi e poi deciderà il da farsi. Se sfiducia sarà, ne prenderà atto e salirà al Colle per dimettersi.
Eppure il finale non è ancora scritto. Letta ufficialmente non spazza via dall’orizzonte l’ipotesi più bellicosa, chiedere al capo dello Stato il passaggio alle Camere: uno show down che metterebbe Renzi e il Pd in difficoltà di fronte al Paese e porterebbe dritti alle elezioni. E dopo, se dovesse finire impallinato? I renziani insinuano che Letta punti a «spaccare tutto per rifare con Alfano la Dc» o, ancora, che miri a intestarsi la guida della minoranza. Ma a Palazzo Chigi smentiscono: «Sciocchezze». Mentre non negano che, se tutto va male, Letta possa prendere le distanze dal suo partito. Come fece Prodi, non ritirando la tessera dopo l’agguato dei 101 franchi tiratori.
Se avesse giocato la sua partita alle primarie, sfidando Renzi in prima persona, le cose sarebbero andate diversamene. Ma Letta non si pente di non aver toccato palla lasciando campo libero al sindaco, né rimpiange di non aver risposto «alle battute in stile grillino» sullo zio Gianni. E pazienza se tanti lettiani se la sono squagliata per seguire Renzi… Ieri il premier ha voluto in conferenza stampa solo i fedelissimi Marco Meloni, Paola De Micheli, Francesco Russo. E quando si è tolto anche l’ultima pietra dalle scarpe era contento: «Lo so che è tardi, ma abbiamo fatto la cosa giusta».
Marco Galluzzo
Monica Guerzoni
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ECCO: giusto le Femen ci mancavano, dall’Ucraina per giunta. Nude, dipinte, strattonate, urlanti, distese sull’asfalto bagnato. Troppi corpi del resto si sono imposti, nell’inverno italiano, e troppe parole è toccato ascoltare, troppe attese e troppe ansie, per non ritrovarsi a fine corsa senza un filo di sgomento e una lieve sensazione di nausea.
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