Il dualismo tra i leader diventa un conflitto che avvicina la crisi
Ma oggi potrebbe arrivarne un terzo, destinato almeno nelle intenzioni a sparigliare i precedenti: la decisione del segretario del Pd, Matteo Renzi, di porre un aut aut al premier.Non ci sarà un appoggio al «patto per il 2014». O il sindaco di Firenze va a Palazzo Chigi, o, se Letta non getta la spugna, si rischia di andare tutti alle urne: questo direbbe oggi Renzi alla Direzione del proprio partito. Magari additando il capo del governo come figlio del Pd che non ha vinto le elezioni del 2013, e che si rifiuta di prendere atto dei nuovi rapporti di forza. Uscire dal ginepraio sarà difficile. Soprattutto, sembra impossibile un compromesso tra i due.
Se non arriva una mediazione in extremis del Quirinale, che ha definito «sciocchezze» le voci di voto, si intravede un percorso che non esclude una crisi di governo; forse elezioni anticipate con il sistema proporzionale, perché non ci sarebbe tempo per la riforma. E magari primarie per Palazzo Chigi con Letta e Renzi a contendersi la carica. Ma lo scontro nel Pd sta portando rapidamente l’Italia sull’orlo dell’ennesima anomalia. La riconsegna a un’instabilità che non è solo politica ma anche economica, con conseguenze internazionali immaginabili e un po’ da brivido. Senza volerlo, la nuova generazione del Pd rischia di logorarsi e di fare una splendida campagna elettorale a beneficio di Silvio Berlusconi e di Beppe Grillo.
D’altronde, che qualcosa non funzionasse si è capito dopo l’incontro tra Letta e Renzi ieri mattina a Palazzo Chigi. Le fonti del partito sostenevano che il colloquio era andato bene, o almeno «benino», nella versione del segretario. Ma quasi in tempo reale, Letta faceva sapere che ognuno dei due «è rimasto sulle rispettive posizioni». Il fantasma della rottura si è materializzato in quel momento, col segretario pronto a replicare: «In Direzione parlerò a carte scoperte». Seppure in maniera guardinga, gli alleati di Letta e i candidati al governo di Renzi già fanno capire di essere pronti a un altro esecutivo.
Una maggioranza che va dal Nuovo centrodestra di Angelino Alfano al Sel di Nichi Vendola, magari con qualche scheggia del Movimento 5 Stelle, sa di azzardo. E comunque, per provare a formarla bisogna aspettare la Direzione odierna del Pd e il modo in cui sarà chiesto a Letta di gettare la spugna. Ieri, nella conferenza stampa nella quale ha presentato con parole orgogliose e un’ira fredda «Impegno Italia», il premier ha tenuto a ribadire di essere «un uomo del Pd» e delle istituzioni. Non è chiaro, dunque, se basterà la sfiducia del suo partito a farlo dimettere, senza un passaggio in Parlamento. Ma avvertendo Renzi che la crisi potrebbe «finire male» perché ci si muove «come in una cristalleria», ha mandato un avvertimento chiaro.
Ha accusato il segretario del Pd di avere perso tempo, per poi imputare a Palazzo Chigi i ritardi. «Ognuno deve dire quello che vuole fare, a carte scoperte: soprattutto chi vuole venire al posto mio. Le dimissioni non si danno per dicerie e manovre». Letta, tuttavia, è il primo ad ammettere che il governo «ha cambiato natura». Nella sua ottica, questo legittima un «Letta bis»; per Renzi, invece, impone un cambio col segretario a Palazzo Chigi fino al termine della legislatura, nel 2018. Progetto ambizioso; e contraddittorio, dopo avere negato per mesi di volere prendere il posto di Letta senza passare per le elezioni. Un Pd spaventato dalle urne proietta Renzi al governo: non da «rottamatore», però, ma come puntello di un Parlamento che cerca di sopravvivere, e di gruppi economici che considerano l’instabilità politica non un limite ma un’occasione.
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