IL DESTINO IN GIOCO

by Sergio Segio | 8 Febbraio 2014 7:53

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Perché la Russia non è prodotto d’ingegneria geopolitica: è uno Stato-civiltà eretto forgiando nel corso di un millennio un’incandescente materia multiculturale e multietnica. Insomma, «un impero che ha tempo e non è di ieri», nella fulminante immagine di Friedrich Nietzsche. Come ogni impero che si rispetti, ha la sua missione civilizzatrice, i suoi valori di fondazione e da esportazione, che nel presidente russo assimilano sacro culto del potere e cristianesimo ortodosso in versione iperconservatrice.
Oggi il destino della Russia è in gioco. E un teatro decisivo di questa partita è il Caucaso. Babele di popoli a matrice tribale, cerniera storica fra imperi del Levante e nomadi allevatori delle pianure eurasiatiche, Montagna delle lingue ( Djabal al-alsun) per i geografi arabi colpiti dalla formidabile concentrazione di idiomi in spazi angusti, questa terra impervia resiste da oltre due secoli a zar, leader sovietici e presidenti della Federazione Russa, decisi a integrarla nello spazio imperiale con la bruta forza o la seduzione del denaro. Senza mai riuscirvi del tutto. I Giochi olimpici invernali di Sochi, alle pendici del Caucaso settentrionale russo — kermesse da oltre 50 miliardi di dollari, molti dei quali destinati a compiacere la comunità degli affari intrinseca al Cremlino — sono stati voluti da Putin per stupire il mondo esibendo il volto moderno dell’impero, capace infine di pacificarne la frontiera più esposta. Senza dubbio l’operazione di immagine più rischiosa mai azzardata dal presidente russo, che pure gode fama (eccessiva) di freddo calcolatore. Se terroristi o altri provocatori rovinassero la festa, a farne le spese sarebbe anzitutto il prestigio personale del leader.
Eppure Putin ha fortissimamente voluto questi Giochi. Non solo perché a due passi dalla sua dacia favorita. Soprattutto per dimostrare a se stesso, alla sua gente e ai suoi nemici che l’impero è vivo, solido e controlla con polso fermo il limes caucasico. Non un confine qualsiasi: la frontiera che determina il carattere della Russia. E ne condiziona il destino.
A seconda che Mosca riesca o meno a pacificare, sviluppare e integrare la sua Ciscaucasia, blindata tre anni fa nel Distretto Federale del Caucaso del Nord — specie le irrequiete repubbliche di Daghestan e Inguscezia, oltre alla Cecenia secessionista riconquistata con la terribile campagna del 1999-2009 — cambia la
cifra geopolitica della Federazione Russa. E il rango del suo capo. In caso di successo, Putin resta lo zar dell’impero russo, sia pure nell’improbabile veste federale. In alternativa, è declassato a presidente di una Federazione Russa amputata non solo del Caucaso settentrionale. Un torso. Putin non perde infatti occasione per ammonire che un secondo dopo la secessione dei “ribelli della montagna” scatterebbe la fuga generale da Mosca. Tana libera tutti. (…) La balcanizzazione della Russia. E la disintegrazione del più grande Stato al mondo, dotato di un inestimabile tesoro minerario e di un arsenale nucleare più che ragguardevole, difficilmente avverrebbe per separazione consensuale, con flemma notarile.

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