Il degrado del linguaggio

by Sergio Segio | 11 Febbraio 2014 7:24

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Parole nette, come si conviene ad una politica consapevole del modo in cui devono essere affrontate le grandi questioni.

Sottraendosi alla subordinazione all’economia e ritenendo fondamentale il rispetto della legalità. Forse dalla politica italiana doveva venire un segnale altrettanto forte dopo il rapporto della Commissione europea che ci attribuisce il 50% della corruzione nei paesi dell’Unione. E invece si è gridato al complotto, si è fatta qualche variazione sui criteri che hanno portato a quella conclusione, mentre era una buona occasione per riflettere sul fatto che la corruzione italiana non è misurabile solo in termini quantitativi, ma deve esserlo soprattutto in termini qualitativi. Se nell’Ottocento si denunciava il “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione, oggi i connubi si sono moltiplicati — tra politica e affari, tra politica e criminalità, tra affari e criminalità — e questo dovrebbe essere tema prioritario.
Questo non avviene perché la politica italiana è precipitata in un vuoto dove ha perduto capacità di comprendere la società, dando spazio alla sfiducia dei cittadini e alla conversione della politica in protesta. Una vera sconfitta, della quale abbiamo potuto misurare l’ampiezza in occasione della conversione del decreto su Imu e Banca d’Italia, quando è divenuta evidente l’incapacità di gestire situazioni difficili, ma non certo drammatiche. Si alzavano i toni, si abbassava la capacità di comprensione e di azione razionale. Né il Governo, né la maggioranza parlamentare e i partiti hanno voluto prendere atto di un elementare dato di realtà: si era di fronte ad un decreto del tutto disomogeneo, al di fuori del binario costituzionale. E, invece di spegnere una così pericolosa miccia, ci si è abbandonati a dissennate prove muscolari, alimentando un indegno spettacolo mediatico. Così la conversione di un decreto legge è divenuta obbligo costituzionale; l’ostruzionismo sempre legittimo in democrazia si è trasformato in blocco fisico del lavoro della Camera e inammissibili aggressioni verbali; l’analisi della situazione è stata affidata a parole gridate, violente contro le donne, con improbabili accostamenti all’eversione e ai colpi di Stato. Si è andati oltre la politica dell’insulto, verso l’estrema degradazione del linguaggio, spia terribile dello stato reale d’una società. Sono comparse liste di proscrizione di chi, magari per un momento appena, aveva sfiorato con un dito l’impuro Grillo.
Si parlava un tempo d’una funzione “teatrale” del Parlamento, perché lì la vicenda politica diveniva palese davanti all’opinione pubblica. Ma oggi questa funzione assomiglia piuttosto a quella delle curve degli stadi, dove gli ultrà organizzano cori e portano striscioni, esibiscono magliette e indicano nemici. Si ha l’impressione che troppi, andando in aula, si preoccupino più di preparare coreografie che argomenti per la discussione. Una sconfitta per la politica.
Nessuno è innocente. E da qui deve partire la stessa valutazione dell’atteggiamento tenuto dai parlamentari del Movimento 5Stelle, che mostra la difficoltà di abitare le istituzioni anche in modo duramente conflittuale,, ma senza confondere un’aula parlamentare con la piazza del Vaffaday. È insensato imputare ad una forza di opposizione i suoi no (anche se l’essere saliti in luglio sul tetto di Montecitorio ha consentito un rinvio della discussione dell’orrido disegno di legge che distorceva la revisione costituzionale, ponendo la premessa per il suo abbandono). È giusto denunciare ogni forma di violenza, verbale o fisica che sia, e non fare alcuno sconto in questa materia. Quando, però, si vuol dare un giudizio più generale, è necessaria una analisi di tutta la prima fase di questa legislatura, sottolineando certamente i limiti delle opposizioni, ma dedicando altrettanta attenzione al sostanziale fallimento delle formule di governo. Di questa sconfitta vogliamo parlare o usiamo la cronaca d’una giornata per esonerarci da questo obbligo?
Il vuoto della politica diventa clamoroso proprio quando si affrontano i problemi della Rete, tema divenuto centrale e che ha rivelato abissi d’ignoranza. Sono anni che si discute dell’“hate speech”, del linguaggio dell’odio che infesta la Rete, sono stati appena pubblicati dalla rivista “Quaderni costituzionali” saggi che discutono il rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e rispetto della dignità delle persone. Di questo non v’è traccia nel dibattito di questi giorni, e diventa addirittura imbarazzante constatare il rifugiarsi in banalità da parte di appartenenti al Movimento 5Stelle, che della Rete hanno fatto il proprio vangelo. Un numero sempre più largo di persone coglie ogni occasione per vivere aggressivamente in pubblico, restituendoci una versione miserabile del quarto d’ora di notorietà che Andy Wharol diceva dovesse venir garantito a tutti. Non è facile reagire a questo stato di cose, ma un comune punto d’avvio dovrebbe essere costituito dal riconoscimento della necessità di non rendere “accoglienti” per il linguaggio degradato i luoghi della nuova comunicazione. Non sto parlando di censura preventiva. Mi riferisco all’immediata e pubblica condanna di messaggi oltraggiosi. Le incertezze e le furbizie generano equivoci, ma la Rete è implacabile nel far emergere le responsabilità, non si può gettare il sasso e poi nascondere la mano. È emerso un fondo limaccioso, un misto di aggressività, violenza, risentimenti, fine d’ogni rispetto per l’altro, che ci rivela che cosa sia divenuta la società italiana. Tutto questo esige una riflessione sul modo in cui si è consumato in Italia un divorzio tra civiltà, cultura e politica.
La lista delle sconfitte della politica continua con un aspetto sottovalutato della legge elettorale, che riguarda la rappresentanza. Siamo di fronte ad una “Serrata del Maggior Consiglio”, simile a quella che si ebbe nel 1297 a Venezia, quando si riservò ai soli membri delle vecchie famiglie l’elezione del Doge. Con l’argomento della lotta ai partitini, si cuce una legge elettorale su misura dei partiti esistenti, con qualche mancia per i possibili alleati (norma salva Lega, candidature multiple per Alfano, vantaggi al “miglior perdente” delle coalizioni). Alle ultime elezioni i votanti furono trentaquattro milioni. Poiché si prevede una soglia dell’8%, rimarrebbero fuori dal Parlamento anche partiti votati da più di due milioni di persone. Le dinamiche politiche sarebbero bloccate e la rappresentatività del Parlamento pregiudicata.
Ma la questione della rappresentanza ha ormai una portata generale, come dimostra il conflitto che si è aperto nella Cgil intorno all’accordo tra sindacati e Confindustria del gennaio di quest’anno. Siamo anche qui di fronte ad una sorta di serrata, che limita non solo il dissenso all’interno del sindacato, ma incide proprio sul diritto dei lavoratori ad essere rappresentati, tanto che si parla di una libertà sindacale “sequestrata”, in evidente contrasto con quanto ha stabilito la Corte costituzionale accogliendo un ricorso della Fiom. Questa vicenda importantissima ci dice che ormai il tema della rappresentanza e la politica costituzionale fanno tutt’uno.
La voce della politica è tornata con la giusta critica di Napolitano alle logica dell’austerità. Ma, per riprendere la via dell’Europa, non basta “ridemocratizzare” le sue istituzioni, come chiede Habermas. È indispensabile “rilegittimare” l’Unione attraverso un recupero della fiducia dei cittadini che passa attraverso il riconoscimento dei diritti negati in questi ultimi anni.

 

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