I poteri del Quirinale come moderatore e intermediario
Riassume quello che è stato un annus horribilis, sul quale gli pare sia calata un’amnesia. Ricorda il «tormentato» 2011, facendone un parziale indice, per dimostrare che alcune interpretazioni politiche «in termini di complotto» sulla genesi del governo Monti «sono solo fumo». Una puntualizzazione strutturata con l’intento di risvegliare la memoria, quella di Giorgio Napolitano. E che ha uno snodo, forse non a tutti chiaro, nella citazione della sentenza emessa dalla Corte costituzionale «n.1 del 2013», con cui fu sciolto (a suo favore) il conflitto con la Procura di Palermo sulle intercettazioni. Certo, è soltanto un inciso, ma sottintende un punto cruciale del pronunciamento, là dove le prerogative del presidente della Repubblica sono sintetizzate come un «potere moderatore e intermediario».
Che significa? Può sembrare pedanteria evocarlo, ma la formula mutua il pensiero di quello scienziato della politica che fu Benjamin Constant. Le sue teorie (l’opposto della lettura schmittiana del potere del capo dello Stato come autoritario e di «ultima istanza») accreditavano i princìpi di un potere neutro, protettivo, di equilibrio e limitazione degli eccessi degli altri poteri: un potere che può e deve dispiegarsi come un elemento di coesione. Un’idea che, applicata all’Italia di ieri, per Napolitano si è tradotta nell’urgenza di individuare soluzioni positive nel caso che il Paese, anzi, sistema, crollasse sotto il peso di una crisi sempre più grave, così da evitare l’extrema ratio dello scioglimento delle Camere. Soluzioni le cui responsabilità, comunque, ricadono sempre sul Parlamento e non su «capricci» del Quirinale.
Ecco lo schema nel quale andrebbero inquadrati i «contatti» avuti dal presidente e che fanno appunto parte del potere «moderatore e intermediario» segnalato dalla Consulta. Incontri, sondaggi e ogni altro tipo di attività informali connesse al proprio ruolo, sulle quali è implicita la raccomandazione al riserbo. O meglio, stando alle parole di Napolitano, una «riservatezza assoluta», come la correttezza istituzionale vorrebbe. Così, nella vicenda che ha coinvolto Mario Monti (e, di riflesso, i suoi confidenti) la spiegazione appare piana, al presidente. Tale che non dovrebbe servire alcuna «operazione verità». Era in corso una crisi politica cominciata fin dall’aprile del 2010, nel giorno del traumatico «che fai mi cacci?» pronunciato da Fini al cospetto di Berlusconi e che aprì una scissione nel più grosso partito della maggioranza. Il logoramento del governo cominciò allora e fu seguìto da altre vicende complesse, non tutte elencate nella missiva del capo dello Stato. Basti pensare alle prove di forza su Brancher e Cosentino, sfociate nelle loro dimissioni, prima di proiettarsi nel fatidico 2011. Quando alla crisi politica si sovrappose una pesantissima crisi economica e l’Italia finì sotto l’assedio dei mercati e lo spread s’impennò a quota 550, con l’evidente impotenza di Palazzo Chigi. La cui autorità, va detto ancora, sembrava diroccarsi anche per i continui scontri tra il ministro Tremonti e l’economista del Pdl Brunetta.
Erano in parecchi, già da mesi e non solo nel mondo politico, a vedere in Monti una «risorsa» da chiamare in servizio nell’ipotesi che Berlusconi si arrendesse. Del resto, che il Cavaliere fosse in estremo affanno per le pressioni dell’Europa sui nostri conti, lo provano le sue reazioni (non negative) alla lettera-ultimatum di Trichet e Draghi: non a caso stese un piano d’interventi che era conforme a quella lettera. Questi sono i fatti indicati da Napolitano, culminati nell’impegno del premier a chiudere la legge di stabilità, prima di cedere le armi.È così illogico che, in quello scenario, abbia valutato con persone di propria fiducia qualche prospettiva per far uscire il Paese dal guado? È così strano, riflettono al Quirinale, che abbia sentito l’esigenza di saggiare la praticabilità di un’alternativa al voto?
Marzio Breda
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