by Sergio Segio | 6 Febbraio 2014 9:16
WASHINGTON — Il nome di Michael McFaul era scritto da molto tempo nell’agendina nera di Vladimir Putin. Da anni. Non erano mai piaciuti i libri scritti o curati dall’allora professore di Stanford sull’autoritarismo del Cremlino e la rivoluzione in Ucraina del 2004. Testi mai dimenticati. Figuriamoci cosa deve aver pensato lo «zar» una volta che si è ritrovato McFaul a Mosca nelle vesti di ambasciatore americano. Non poteva durare. Anzi, è durata abbastanza a lungo. Infatti il diplomatico ha appena annunciato che se ne torna a casa dopo poco più di due anni «per dedicarsi alla famiglia», all’insegnamento e all’amministrazione Usa. Conclusione inevitabile dopo una missione tumultuosa.
Grande esperto dell’Est Europa, 50 anni, McFaul è stato scelto da Obama nel 2008 quale consigliere per le questioni russe e ha assistito il presidente in una fase non facile nelle relazioni con il Cremlino, messe a dura prova dalle vecchie ruggini e dalla crisi in Georgia. Poi nel 2011 la Casa Bianca ha deciso di affidare l’ambasciata di Mosca al professore, privilegiando il passo dell’accademico a quello del diplomatico di carriera. Il secondo in trenta anni. Un incarico accompagnato dall’ordine di «riavviare» — la strategia del reset — i rapporti con i russi. Solo che dall’altra parte non erano sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda.
Una volta a Mosca l’ambasciatore ha rotto il protocollo cercando un contatto diretto con l’opinione pubblica russa. Azione fuori dagli schemi che però è stata percepita dalle autorità come un’ingerenza negli affari interni. Tanto più che a Mosca erano forti le contestazioni verso il Cremlino. Ecco che McFaul è stato dipinto come il sobillatore e non come l’uomo del dialogo. La stampa ufficiale non ha perso tempo a martellarlo. Lui ha risposto a tono denunciando lo stalking dei reporter filo-Cremlino, sostenendo di essere seguito e sorvegliato. Così altre polemiche, accuse, ritorsioni. E molto sotto gli occhi di tutti, con l’inviato americano pronto a difendersi anche su Twitter. Invece del reset un blocco o quasi.
Mosca ha spinto sull’acceleratore affermando che McFaul ha finanziato l’opposizione, poi ha messo alla porta l’agenzia americana per lo sviluppo Usaid. Alla crisi dei rapporti personali si sono aggiunti i contrasti su un’infinità di dossier tra Usa e Russia. Il nucleare iraniano, l’appoggio del Cremlino alla Siria di Assad e lo stop alle adozioni dei bambini russi per citare le «pratiche» più note. Grane strategiche seguite da episodi degni della Guerra fredda.
Nel maggio 2013 i servizi russi bloccano in un parco di Mosca il terzo segretario dell’ambasciata Usa, Ryan Fogle e lo mettono alla gogna mostrandolo con una parrucca, presunti strumenti da 007, documenti. Lo accusano di essere una spia impegnata in un’operazione clandestina. Nulla, però, in confronto al caso Snowden. L’ex dipendente della Nsa fugge, via Hong Kong, in Russia dopo aver svelato i segreti dell’agenzia di intelligence.
È il picco della tempesta, con alcuni deputati americani che considerano Snowden un traditore nelle mani del nemico Putin. Volano altri schiaffi per le discriminazioni antigay del Cremlino. C’è poco spazio per il dialogo. I rivali si guardano di traverso. Gli storici ricordano il famoso precedente dell’ambasciatore George Kennan dichiarato «persona non grata» nell’ottobre del 1952 «per i suoi attacchi calunniosi verso l’Urss».
Non siamo a quei livelli, ma McFaul ha deciso che è giunto il momento di andarsene. Partirà alla conclusione dell’Olimpiade invernale e raggiungerà la sua famiglia già rientrata da un anno in California. Sul blog dell’ambasciata ha salutato la «grande cooperazione» tra i due Paesi. Parole da diplomatico e non da professore.
Guido Olimpio
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