by Sergio Segio | 8 Febbraio 2014 7:31
Mattina stordita dal vento forte e da una pioggia acuminata. Il pensiero passa improvviso per la testa, strappandoti un sorriso nascosto nel bavero del cappotto: qui, al porto di Livorno, davanti a un mare irrequieto, non sei in attesa di una riposta. Ma di una sentenza. Perché tra poco, dalla sede dei traghetti della Toremar, uscirà un ufficiale nei panni del giudice, e ti dirà se puoi partire verso l’isola di Gorgona, Casa di reclusione maschile. Insieme a te, una piccola troupe della Rai, tre giornalisti italiani, una giornalista francese, e un signore alto, elegante, capelli radi. Di nome fa Lamberto Frescobaldi, ex sangue blu di antica dinastia. Il suo mestiere è mettere al mondo vino. Nobile, beninteso. La porta della Toremar si apre. Arriva il verdetto. Non si parte, il Mar Ligure arrabbiato lo vieta. Le diciotto miglia marine che separano la costa livornese da Gorgona divengono distanza incolmabile. Forse sarà così anche domani.
Voltiamo le spalle alle onde, più rincresciuti che offesi dalla loro inclemenza. Mentre il verdetto era ancora in discussione, a infoltire il gruppo sono arrivati un esperto di formaggi e un educatore carcerario. Tutti insieme facciamo rotta verso un bar che possa ospitarci e dove, dice Frescobaldi, «Potremo parlare». Parlare di Gorgona, visto che approdarvi non è stato possibile. Per quale ragione dovremmo farlo? Per quale ragione dovremmo parlare di una macchia di roccia e di verde, due chilometri quadrati, dal 1869 sede di un penitenziario? Ci stringiamo intorno a due tavoli nella saletta del bar. Su uno dei due, Lamberto posa una bottiglia di vino. L’etichetta dice che il nettare bianco si chiama Gorgona, da vigne di Ansonica e Vermentino, e che si fregia della Igt Toscana, Indicazione Geografica Tipica.
Ma non si ferma lì. Il testo impaginato a blocchi dal titolo Fuoco, Aria, Acqua, Vento; la dicitura «Edizione straordinaria dell’isola, 2000 copie»; il riquadro «Progetto» a firma di Frescobaldi e le piccole illustrazioni in bianco e nero, rimandano a un giornale o a un libro come si impaginavano un paio di secoli fa. Identico sapore di quei secoli ha la sovraetichetta candida, pergamena chiusa da un sigillo di ceralacca giallo che avvolge anche il collo della bottiglia. Sono questi dettagli a fornire indizi evidenti del fatto che il Gorgona non è soltanto un vino. E che, invece, è il punto di arrivo di un progetto, un piccolo e diverso tramite per dare concretezza a una speranza difficilissima nella realtà delle carceri italiane: buttarsi dietro le spalle, grazie a un lavoro, ciò che si è stati, o si è stati costretti ad essere.
L’isola, pochi anni dopo la nascita del Regno d’Italia, venne destinata a «Luogo aperto di detenzione e pena». I carcerati rientravano nelle celle soltanto con il calare della sera. Durante il giorno svolgevano lavori legati all’agricoltura e all’allevamento. Lavori forzati. Da cui nacquero ribellioni e sommosse.
Il filo del nostro racconto impone un lungo salto temporale, fino agli anni ’80 del secolo passato e a un libro, Ne vale la pena, autori Carlo Mazzerbo e Gregorio Catalano. Lo ha pubblicato qualche mese fa l’editore Nutrimenti di Roma. In poco meno di duecento pagine, Mazzerbo racconta la sua vita di direttore della Casa di Gorgona dal 1989 al 2004. Carlo, esperienze precedenti nelle carceri del Nord e del Sud della penisola, eredita il ruolo per nove anni affidato a Bruno Bonucci. Ed è lui ad accogliere il futuro direttore quando sbarca dal traghetto per un week end esplorativo che dovrà condurlo a una decisione «… Gorgona, perché no? … È un’isola penitenziario come la immagino, impostata sul lavoro, l’agricoltura, l’allevamento…
Dopo un’ora di navigazione eccomi nell’altro mondo, affascinato, confuso dal primo impatto con l’isola, attraente fin dal suo apparire in lontananza… L’idea del carcere te la danno solo le divise degli agenti, le auto della Penitenziaria, perché per il resto vedi lavoratori in ogni angolo, presi dalle tante attività che il vecchio direttore ha messo in piedi. Bonucci mi mostra con orgoglio le realizzazioni… ». Il lavoro di Bonucci rivela però un aspetto non di poco conto, che Mazzerbo mette subito a fuoco: «Nelle poche ore della perlustrazione capisco che il direttore, il padre — padrone… ha grande capacità, con un limite non indifferente: considera quel luogo suo, ne è geloso, non vuole aprirlo all’esterno…
Tutta l’attività è rivolta a produrre solo per l’isola, nessuna forma di scambio, nessun contatto con la terraferma se non per gli approvvigionamenti indispensabili». Mazzerbo accetta l’incarico, che lo vedrà protagonista, accanto ai detenuti e agli educatori, di un cammino lungo il quale l’agricoltura, la cura del grande orto e della vigna, la produzione di formaggi e salumi, la pesca, l’apicoltura, diverranno risorse economiche e legami forti con il mondo esterno. Al pari della creazione di un band musicale, di un armo di canottaggio, di corsi per l’acquisizione della licenza media. Accanto alle vittorie, Carlo dovrà accettare qualche delusione e qualche sconfitta. La più cocente arriverà da due delitti, che metteranno a repentaglio la vita del «laboratorio Gorgona». Ma il sogno dell’isola è destinato a non estinguersi. Nel 2011, Maria Grazia Giampiccolo, direttore della Casa di Reclusione di Volterra, diviene tale anche sull’isola. Con lei si avvia «Granducato – Progetto la terra, il borgo e la fattoria — Casa di reclusione di Gorgona», che ha tra i suoi partner la Provincia di Livorno, l’Università di Pisa, la Camera del Lavoro locale, la Cgil, Confagricoltura, Lega delle Cooperative.
Gli obbiettivi sono il proseguimento delle attività legate alle filiere agricole e, tramite queste, la formazione dei cinquantadue detenuti beneficiari; l’incremento produttivo, la gestione del ciclo di lavorazione e dei processi operativi. Il progetto Granducato, il 23 marzo 2012, trova risposta positiva e un finanziamento di 520mila euro dalla Cassa Ammende del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Resta da compiere, nel suo ambito, un passo fondamentale: aprire le attività a imprese private per innalzare il livello di eccellenza e per dare a chi torna libero prospettive concrete di un salario su cui ricostruire la propria vita. Durante la direzione di Maria Grazia Giampiccolo, i rapporti fuori dai confini dell’isola si ampliano grazie anche ai «Pranzi Galeotti», versione diurna ed estiva delle serate gastronomiche organizzate all’interno del carcere di Volterra.
L’attenzione di uno degli educatori, Stefano Turbati, si concentra sulla minuscola vigna, in bella posizione, piantata nel 1999, ai tempi di Carlo Mazzerbo. L’arte del vino, si sa, è pratica difficile, la buona volontà non basta, ci vuole gente esperta che insegni a curare i filari, che guidi nel migliore dei modi il viaggio verso il buio della cantina. E allora, dal computer di Turbati, parte un fax rivolto ad alcuni grandi nomi dell’enologia toscana per chiedere assistenza e competenza, per aiutare la vigna a dare il meglio di sé. Uno di questi nomi è Lamberto Frescobaldi. Sul tavolo del bar livornese, Lamberto gira e rigira tra le mani la bottiglia di Gorgona, l’appoggia, la guarda: «Mi portarono quel fax, lo lessi e decisi in un attimo di accettare. Far nascere il vino a Gorgona implicava di insegnare ai detenuti una professione. Non sono un esperto di cifre, ma ho letto che questo abbassa dall’80 al 20 per cento la possibilità di tornare a commettere un crimine. Dunque chiamo Turbati, e con lui, il 7 di agosto del 2102, arriviamo all’isola. Visitiamo la vigna, due ettari, per metà recuperata da un detenuto siciliano, un eccezionale agronomo involontario. Le sue capacità mi stupirono al punto che, pensando a quanto avrebbe potuto risultare utile, gli chiesi ’Lei quando torna in libertà?’ — e lui mi rispose ’A gennaio 2014’. E io ’Di già?’. Ridemmo tutti e due della mia gaffe!».
Dopo la vigna, la cantina: «Mi accompagnò un altro detenuto. Assaggiai il vino, per poi sputarlo come bisogna fare quando si degusta. Mentre tornavamo, il detenuto, che era stato fino ad allora in silenzio, mormorò un po’ triste ‘Allora il nostro vino è proprio cattivo’. Gli chiesi perché dicesse questo. ‘Perché lo ha sputato’». Il compito di creare il Gorgona viene affidato a Niccolò d’Afflitto, l’enologo dell’azienda toscana. La cura della vigna e la vinificazione sono i mestieri da trasmettere a chi, un giorno più o meno lontano, tornerà ad essere un uomo libero. Intanto, sull’isola, è arrivato un trattore nuovo di zecca, regalo di un industriale piemontese contattato da Frescobaldi: «Resto ancora stupito dal fatto che bastava accennare al progetto per ricevere subito un sì. E non era certamente un sì concesso pensando al ritorno di immagine. Nella nostra vita di gente che si alza al mattino con il privilegio di fare un lavoro bello, non sono sempre e soltanto i quattrini e l’immagine a dettar legge». La cantina accoglie il Gorgona dentro tini d’acciaio. L’imbottigliamento, operazione molto delicata, avviene nelle tenute Frescobaldi, con la prospettiva però di renderla autonoma. Ora la bottiglia va vestita. Ci pensa l’art director Simonetta Doni, cui un viaggio sull’isola regala ispirazione e idee. L’incontro con la piccola popolazione carceraria, i suggerimenti e i discorsi, il contesto naturale di rara meraviglia, portano Doni a disegnare un’etichetta completamente al di fuori dei canoni classici; a decidere di assegnarle il compito di raccontare una storia probabilmente unica nel mondo dell’enologia.
Il vino, presentato in un celebre ristorante di Firenze, suscita molto interesse non solo a proposito di bouquet, retrogusti, aromi e via annusando e degustando. Ricorda Lamberto: «Se dietro il Gorgona non ci fosse stato quel progetto, sarebbe stato accolto come un ottimo vino e basta. E invece esprimeva molto, molto di più». Piccoli i numeri di produzione: 2700 bottiglie, di cui duemila nelle enoteche, 50 euro il prezzo al pubblico, e in alcuni ristoranti di fascia alta. Le altre settecento distribuite all’estero. Sull’isola si sta reimpiantando l’ettaro di vigna abbandonato per far crescere il conto finale delle bottiglie.
La voce di Alberto Marcomini al tavolo del bar livornese si era finora sentita solo per le reciproche presentazioni. Giusto così, parlando di vino. Perché lui, Alberto, è un mago dei formaggi, coinvolto, guarda caso da Frescobaldi, nell’avventura dell’isola. Un’avventura umana, prima di tutto: «Gli inizi sono stati difficili, provavo un certo disagio, mi sentivo un po’fuori posto. Quando i rapporti con la polizia penitenziaria e con i detenuti, la confidenza con la dimensione della Gorgona, sono diventati più stretti, sono usciti dalla formalità, l’entusiasmo per quanto volevo realizzare è andato crescendo.
Mi piaceva essere lì, fermarmi a dormire, svegliarmi al mattino presto e camminare in un posto fantastico, passare ore e ore nel caseificio insieme alle tre persone con cui continuo a dividere il lavoro». Marcomini inizia a mettersi all’opera a metà giugno 2012. Assaggia i formaggi, un vaccino, alcuni pecorini e provole. Sanno di poco, il sistema di produzione è sbagliato: «Pecore, mucche e capre brucavano, però, in un paradiso terrestre, tra mirto, rosmarino, lentisco. Allora ho pensato che il latte doveva essere trasformato nel modo più naturale possibile. Appena munto, la sua temperatura è di 33 gradi. Noi lo portiamo a 35 con un colpo di fuoco, e poi viene lavorato senza alcun fermento o innesto. Sull’isola non esiste un pastorizzatore, quindi i formaggi sono a latte crudo e proprio per questo esprimono tutte le caratteristiche di un contesto ancora preservato e puro. Raggiungeremo, credo, le quattrocento formine, di cui una parte sarà avvolta nelle erbe aromatiche». Formaggi e vino, manca solo il pane per comporre il trio gastronomico perfetto. E invece non manca. I detenuti lo producono da sempre, e in più sfornano biscotti. Frescobaldi anticipa la domanda. Nel cantiere delle idee future, la pasticceria artigianale non può mancare. Forse la caccia al maestro dell’arte bianca è già aperta. Lasciamo il bar, pioggia e vento si sono acquietati. Troppo tardi, mannaggia a loro. Guardi il mare e vorresti che i tuoi occhi potessero mettere a fuoco, seppure in lontananza, il profilo della Gorgona. Vorresti poter salire a bordo di una nave qualunque e chiedere di far rotta verso l’isola. Quell’isola che, almeno per te, continua ad essere l’isola che non c’è.
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