Enologia della liberazione sull’isola-carcere

Enologia della liberazione sull’isola-carcere

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Mat­tina stor­dita dal vento forte e da una piog­gia acu­mi­nata. Il pen­siero passa improv­viso per la testa, strap­pan­doti un sor­riso nasco­sto nel bavero del cap­potto: qui, al porto di Livorno, davanti a un mare irre­quieto, non sei in attesa di una ripo­sta. Ma di una sen­tenza. Per­ché tra poco, dalla sede dei tra­ghetti della Tore­mar, uscirà un uffi­ciale nei panni del giu­dice, e ti dirà se puoi par­tire verso l’isola di Gor­gona, Casa di reclu­sione maschile. Insieme a te, una pic­cola troupe della Rai, tre gior­na­li­sti ita­liani, una gior­na­li­sta fran­cese, e un signore alto, ele­gante, capelli radi. Di nome fa Lam­berto Fre­sco­baldi, ex san­gue blu di antica dina­stia. Il suo mestiere è met­tere al mondo vino. Nobile, benin­teso. La porta della Tore­mar si apre. Arriva il ver­detto. Non si parte, il Mar Ligure arrab­biato lo vieta. Le diciotto miglia marine che sepa­rano la costa livor­nese da Gor­gona diven­gono distanza incol­ma­bile. Forse sarà così anche domani.

Vol­tiamo le spalle alle onde, più rin­cre­sciuti che offesi dalla loro incle­menza. Men­tre il ver­detto era ancora in discus­sione, a infol­tire il gruppo sono arri­vati un esperto di for­maggi e un edu­ca­tore car­ce­ra­rio. Tutti insieme fac­ciamo rotta verso un bar che possa ospi­tarci e dove, dice Fre­sco­baldi, «Potremo par­lare». Par­lare di Gor­gona, visto che appro­darvi non è stato pos­si­bile. Per quale ragione dovremmo farlo? Per quale ragione dovremmo par­lare di una mac­chia di roc­cia e di verde, due chi­lo­me­tri qua­drati, dal 1869 sede di un peni­ten­zia­rio? Ci strin­giamo intorno a due tavoli nella saletta del bar. Su uno dei due, Lam­berto posa una bot­ti­glia di vino. L’etichetta dice che il net­tare bianco si chiama Gor­gona, da vigne di Anso­nica e Ver­men­tino, e che si fre­gia della Igt Toscana, Indi­ca­zione Geo­gra­fica Tipica.

Ma non si ferma lì. Il testo impa­gi­nato a bloc­chi dal titolo Fuoco, Aria, Acqua, Vento; la dici­tura «Edi­zione straor­di­na­ria dell’isola, 2000 copie»; il riqua­dro «Pro­getto» a firma di Fre­sco­baldi e le pic­cole illu­stra­zioni in bianco e nero, riman­dano a un gior­nale o a un libro come si impa­gi­na­vano un paio di secoli fa. Iden­tico sapore di quei secoli ha la sovrae­ti­chetta can­dida, per­ga­mena chiusa da un sigillo di cera­lacca giallo che avvolge anche il collo della bot­ti­glia. Sono que­sti det­ta­gli a for­nire indizi evi­denti del fatto che il Gor­gona non è sol­tanto un vino. E che, invece, è il punto di arrivo di un pro­getto, un pic­colo e diverso tra­mite per dare con­cre­tezza a una spe­ranza dif­fi­ci­lis­sima nella realtà delle car­ceri ita­liane: but­tarsi die­tro le spalle, gra­zie a un lavoro, ciò che si è stati, o si è stati costretti ad essere.

L’isola, pochi anni dopo la nascita del Regno d’Italia, venne desti­nata a «Luogo aperto di deten­zione e pena». I car­ce­rati rien­tra­vano nelle celle sol­tanto con il calare della sera. Durante il giorno svol­ge­vano lavori legati all’agricoltura e all’allevamento. Lavori for­zati. Da cui nac­quero ribel­lioni e sommosse.

Il filo del nostro rac­conto impone un lungo salto tem­po­rale, fino agli anni ’80 del secolo pas­sato e a un libro, Ne vale la pena, autori Carlo Maz­zerbo e Gre­go­rio Cata­lano. Lo ha pub­bli­cato qual­che mese fa l’editore Nutri­menti di Roma. In poco meno di due­cento pagine, Maz­zerbo rac­conta la sua vita di diret­tore della Casa di Gor­gona dal 1989 al 2004. Carlo, espe­rienze pre­ce­denti nelle car­ceri del Nord e del Sud della peni­sola, ere­dita il ruolo per nove anni affi­dato a Bruno Bonucci. Ed è lui ad acco­gliere il futuro diret­tore quando sbarca dal tra­ghetto per un week end esplo­ra­tivo che dovrà con­durlo a una deci­sione «… Gor­gona, per­ché no? … È un’isola peni­ten­zia­rio come la imma­gino, impo­stata sul lavoro, l’agricoltura, l’allevamento…

Dopo un’ora di navi­ga­zione eccomi nell’altro mondo, affa­sci­nato, con­fuso dal primo impatto con l’isola, attraente fin dal suo appa­rire in lon­ta­nanza… L’idea del car­cere te la danno solo le divise degli agenti, le auto della Peni­ten­zia­ria, per­ché per il resto vedi lavo­ra­tori in ogni angolo, presi dalle tante atti­vità che il vec­chio diret­tore ha messo in piedi. Bonucci mi mostra con orgo­glio le rea­liz­za­zioni… ». Il lavoro di Bonucci rivela però un aspetto non di poco conto, che Maz­zerbo mette subito a fuoco: «Nelle poche ore della per­lu­stra­zione capi­sco che il diret­tore, il padre — padrone… ha grande capa­cità, con un limite non indif­fe­rente: con­si­dera quel luogo suo, ne è geloso, non vuole aprirlo all’esterno…

Tutta l’attività è rivolta a pro­durre solo per l’isola, nes­suna forma di scam­bio, nes­sun con­tatto con la ter­ra­ferma se non per gli approv­vi­gio­na­menti indi­spen­sa­bili». Maz­zerbo accetta l’incarico, che lo vedrà pro­ta­go­ni­sta, accanto ai dete­nuti e agli edu­ca­tori, di un cam­mino lungo il quale l’agricoltura, la cura del grande orto e della vigna, la pro­du­zione di for­maggi e salumi, la pesca, l’apicoltura, diver­ranno risorse eco­no­mi­che e legami forti con il mondo esterno. Al pari della crea­zione di un band musi­cale, di un armo di canot­tag­gio, di corsi per l’acquisizione della licenza media. Accanto alle vit­to­rie, Carlo dovrà accet­tare qual­che delu­sione e qual­che scon­fitta. La più cocente arri­verà da due delitti, che met­te­ranno a repen­ta­glio la vita del «labo­ra­to­rio Gor­gona». Ma il sogno dell’isola è desti­nato a non estin­guersi. Nel 2011, Maria Gra­zia Giam­pic­colo, diret­tore della Casa di Reclu­sione di Vol­terra, diviene tale anche sull’isola. Con lei si avvia «Gran­du­cato – Pro­getto la terra, il borgo e la fat­to­ria — Casa di reclu­sione di Gor­gona», che ha tra i suoi part­ner la Pro­vin­cia di Livorno, l’Università di Pisa, la Camera del Lavoro locale, la Cgil, Con­fa­gri­col­tura, Lega delle Cooperative.

Gli obbiet­tivi sono il pro­se­gui­mento delle atti­vità legate alle filiere agri­cole e, tra­mite que­ste, la for­ma­zione dei cin­quan­ta­due dete­nuti bene­fi­ciari; l’incremento pro­dut­tivo, la gestione del ciclo di lavo­ra­zione e dei pro­cessi ope­ra­tivi. Il pro­getto Gran­du­cato, il 23 marzo 2012, trova rispo­sta posi­tiva e un finan­zia­mento di 520mila euro dalla Cassa Ammende del Dipar­ti­mento dell’Amministrazione Peni­ten­zia­ria. Resta da com­piere, nel suo ambito, un passo fon­da­men­tale: aprire le atti­vità a imprese pri­vate per innal­zare il livello di eccel­lenza e per dare a chi torna libero pro­spet­tive con­crete di un sala­rio su cui rico­struire la pro­pria vita. Durante la dire­zione di Maria Gra­zia Giam­pic­colo, i rap­porti fuori dai con­fini dell’isola si ampliano gra­zie anche ai «Pranzi Galeotti», ver­sione diurna ed estiva delle serate gastro­no­mi­che orga­niz­zate all’interno del car­cere di Volterra.

L’attenzione di uno degli edu­ca­tori, Ste­fano Tur­bati, si con­cen­tra sulla minu­scola vigna, in bella posi­zione, pian­tata nel 1999, ai tempi di Carlo Maz­zerbo. L’arte del vino, si sa, è pra­tica dif­fi­cile, la buona volontà non basta, ci vuole gente esperta che inse­gni a curare i filari, che guidi nel migliore dei modi il viag­gio verso il buio della can­tina. E allora, dal com­pu­ter di Tur­bati, parte un fax rivolto ad alcuni grandi nomi dell’enologia toscana per chie­dere assi­stenza e com­pe­tenza, per aiu­tare la vigna a dare il meglio di sé. Uno di que­sti nomi è Lam­berto Fre­sco­baldi. Sul tavolo del bar livor­nese, Lam­berto gira e rigira tra le mani la bot­ti­glia di Gor­gona, l’appoggia, la guarda: «Mi por­ta­rono quel fax, lo lessi e decisi in un attimo di accet­tare. Far nascere il vino a Gor­gona impli­cava di inse­gnare ai dete­nuti una pro­fes­sione. Non sono un esperto di cifre, ma ho letto che que­sto abbassa dall’80 al 20 per cento la pos­si­bi­lità di tor­nare a com­met­tere un cri­mine. Dun­que chiamo Tur­bati, e con lui, il 7 di ago­sto del 2102, arri­viamo all’isola. Visi­tiamo la vigna, due ettari, per metà recu­pe­rata da un dete­nuto sici­liano, un ecce­zio­nale agro­nomo invo­lon­ta­rio. Le sue capa­cità mi stu­pi­rono al punto che, pen­sando a quanto avrebbe potuto risul­tare utile, gli chiesi ’Lei quando torna in libertà?’ — e lui mi rispose ’A gen­naio 2014’. E io ’Di già?’. Ridemmo tutti e due della mia gaffe!».

Dopo la vigna, la can­tina: «Mi accom­pa­gnò un altro dete­nuto. Assag­giai il vino, per poi spu­tarlo come biso­gna fare quando si degu­sta. Men­tre tor­na­vamo, il dete­nuto, che era stato fino ad allora in silen­zio, mor­morò un po’ tri­ste ‘Allora il nostro vino è pro­prio cat­tivo’. Gli chiesi per­ché dicesse que­sto. ‘Per­ché lo ha spu­tato’». Il com­pito di creare il Gor­gona viene affi­dato a Nic­colò d’Afflitto, l’enologo dell’azienda toscana. La cura della vigna e la vini­fi­ca­zione sono i mestieri da tra­smet­tere a chi, un giorno più o meno lon­tano, tor­nerà ad essere un uomo libero. Intanto, sull’isola, è arri­vato un trat­tore nuovo di zecca, regalo di un indu­striale pie­mon­tese con­tat­tato da Fre­sco­baldi: «Resto ancora stu­pito dal fatto che bastava accen­nare al pro­getto per rice­vere subito un sì. E non era cer­ta­mente un sì con­cesso pen­sando al ritorno di imma­gine. Nella nostra vita di gente che si alza al mat­tino con il pri­vi­le­gio di fare un lavoro bello, non sono sem­pre e sol­tanto i quat­trini e l’immagine a det­tar legge». La can­tina acco­glie il Gor­gona den­tro tini d’acciaio. L’imbottigliamento, ope­ra­zione molto deli­cata, avviene nelle tenute Fre­sco­baldi, con la pro­spet­tiva però di ren­derla auto­noma. Ora la bot­ti­glia va vestita. Ci pensa l’art direc­tor Simo­netta Doni, cui un viag­gio sull’isola regala ispi­ra­zione e idee. L’incontro con la pic­cola popo­la­zione car­ce­ra­ria, i sug­ge­ri­menti e i discorsi, il con­te­sto natu­rale di rara mera­vi­glia, por­tano Doni a dise­gnare un’etichetta com­ple­ta­mente al di fuori dei canoni clas­sici; a deci­dere di asse­gnarle il com­pito di rac­con­tare una sto­ria pro­ba­bil­mente unica nel mondo dell’enologia.

Il vino, pre­sen­tato in un cele­bre risto­rante di Firenze, suscita molto inte­resse non solo a pro­po­sito di bou­quet, retro­gu­sti, aromi e via annu­sando e degu­stando. Ricorda Lam­berto: «Se die­tro il Gor­gona non ci fosse stato quel pro­getto, sarebbe stato accolto come un ottimo vino e basta. E invece espri­meva molto, molto di più». Pic­coli i numeri di pro­du­zione: 2700 bot­ti­glie, di cui due­mila nelle eno­te­che, 50 euro il prezzo al pub­blico, e in alcuni risto­ranti di fascia alta. Le altre set­te­cento distri­buite all’estero. Sull’isola si sta reim­pian­tando l’ettaro di vigna abban­do­nato per far cre­scere il conto finale delle bottiglie.

La voce di Alberto Mar­co­mini al tavolo del bar livor­nese si era finora sen­tita solo per le reci­pro­che pre­sen­ta­zioni. Giu­sto così, par­lando di vino. Per­ché lui, Alberto, è un mago dei for­maggi, coin­volto, guarda caso da Fre­sco­baldi, nell’avventura dell’isola. Un’avventura umana, prima di tutto: «Gli inizi sono stati dif­fi­cili, pro­vavo un certo disa­gio, mi sen­tivo un po’fuori posto. Quando i rap­porti con la poli­zia peni­ten­zia­ria e con i dete­nuti, la con­fi­denza con la dimen­sione della Gor­gona, sono diven­tati più stretti, sono usciti dalla for­ma­lità, l’entusiasmo per quanto volevo rea­liz­zare è andato crescendo.

Mi pia­ceva essere lì, fer­marmi a dor­mire, sve­gliarmi al mat­tino pre­sto e cam­mi­nare in un posto fan­ta­stico, pas­sare ore e ore nel casei­fi­cio insieme alle tre per­sone con cui con­ti­nuo a divi­dere il lavoro». Mar­co­mini ini­zia a met­tersi all’opera a metà giu­gno 2012. Assag­gia i for­maggi, un vac­cino, alcuni peco­rini e pro­vole. Sanno di poco, il sistema di pro­du­zione è sba­gliato: «Pecore, muc­che e capre bru­ca­vano, però, in un para­diso ter­re­stre, tra mirto, rosma­rino, len­ti­sco. Allora ho pen­sato che il latte doveva essere tra­sfor­mato nel modo più natu­rale pos­si­bile. Appena munto, la sua tem­pe­ra­tura è di 33 gradi. Noi lo por­tiamo a 35 con un colpo di fuoco, e poi viene lavo­rato senza alcun fer­mento o inne­sto. Sull’isola non esi­ste un pasto­riz­za­tore, quindi i for­maggi sono a latte crudo e pro­prio per que­sto espri­mono tutte le carat­te­ri­sti­che di un con­te­sto ancora pre­ser­vato e puro. Rag­giun­ge­remo, credo, le quat­tro­cento for­mine, di cui una parte sarà avvolta nelle erbe aro­ma­ti­che». For­maggi e vino, manca solo il pane per com­porre il trio gastro­no­mico per­fetto. E invece non manca. I dete­nuti lo pro­du­cono da sem­pre, e in più sfor­nano biscotti. Fre­sco­baldi anti­cipa la domanda. Nel can­tiere delle idee future, la pastic­ce­ria arti­gia­nale non può man­care. Forse la cac­cia al mae­stro dell’arte bianca è già aperta. Lasciamo il bar, piog­gia e vento si sono acquie­tati. Troppo tardi, man­nag­gia a loro. Guardi il mare e vor­re­sti che i tuoi occhi potes­sero met­tere a fuoco, sep­pure in lon­ta­nanza, il pro­filo della Gor­gona. Vor­re­sti poter salire a bordo di una nave qua­lun­que e chie­dere di far rotta verso l’isola. Quell’isola che, almeno per te, con­ti­nua ad essere l’isola che non c’è.


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