Dopo la stretta di Fed e banche centrali ricreazione finita sui mercati mondiali

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Mentre sugli schermi delle sale operative le monete di Turchia, Russia o Sudafrica puntano decise verso il basso e trasmettono tremori fino a Piazza Affari, è difficile scacciare un’idea profana: la storia finanziaria degli ultimi vent’anni ricorda un metronomo. Batte sempre più in fretta.
Ogni colpo ha un proprio suono e cause specifiche: dalla crisi dello Sme del ‘92 a quella messicana della Tequila nel ‘95, dalla tempesta delle Tigri asiatiche nel ‘97 all’insolvenza russa del ‘98, fino all’esplosione della bolla delle dotcom nel 2000, al default argentino nel 2001, poi la crisi nata dai subprime nel 2007 e quella dell’euro partita in Grecia nel 2009, ciascun episodio ha alla radice illusioni, eccessi e errori diversi. Ma per tutto questo tempo la lancetta dei sentimenti di mercato non ha fatto che oscillare da un estremo all’altro. Si è mossa sempre più in fretta. Così veloce che la transizione da un colpo al successivo, almeno a credere alle parole dei leader, sembra ormai strettamente in sequenza.
Lunedì i mercati emergenti, dalla Thailandia all’Argentina, hanno conosciuto le ore più difficili subito dopo che Enrico Letta aveva assicurato: «La crisi dell’euro è finita». Il premier poteva difendere le sue affermazioni con alcune realtà di fatto, se non altro perché oggi l’Europa è tornata a crescere, lo spread dei Btp sui Bund è sceso poco sopra i 200 punti-base e il Ftse-Mib di Milano ha guadagnato il 18,8% nell’ultimo anno.
Ma mai come questa settimana è stata netta l’impressione che le fasi di sollievo, euforia, nervosismo e panico degli investitori sono sempre più ravvicinate. Naturalmente certi strappi non sono altro che sane correzioni di rotta prima di scivolare nell’eccesso. In questa categoria rientra per ora ciò che sta accadendo a Wall Street e in molte delle grandi economie a reddito medio-basso. Non è un caso se ieri New York ha recuperato parte della brusca caduta di lunedì e i listini europei si sono stabilizzati: Milano è rimbalzata dello 0,8% dopo il crollo dell’altro ieri e le altre principali piazze si sono mosse attorno allo zero.
In questi giorni, succede semplicemente che i dati più deboli del previsto sull’industria manifatturiera cinese e sulla ripresa americana suonino la fine della ricreazione: gli investitori si sono ammassati verso l’uscita, caoticamente, in attesa che i valori finanziari si riallineassero (al ribasso) con economie meno solide di quanto speravano. Dal Brasile all’Asia del Sud-Est, gli indici di Borsa, il credito e le valute erano corsi troppo più avanti della realtà. In Turchia la crescita dei prestiti viaggiava al ritmo di 40% l’anno, in Cina, Brasile, Russia o India al 20%. Il ritorno in lavoro, produzione e utili su ognuno di questi investimenti fatti a debito risultava sempre minore. Anche negli Stati Uniti è successo qualcosa di paragonabile, almeno in parte. Il principale listino di Wall Street, lo S&P500, era cresciuto del 30% nel 2013 e adesso molti aspettavano conferme che la forza della ripresa giustificasse i prezzi stellari delle azioni. I primi dubbi hanno provocato la slavina.
Ma se ogni episodio ha una propria logica, è difficile ignorare che ogni passaggio dall’euforia al panico negli ultimi vent’anni diventa sempre più ravvicinato. Il fattore che la alimenta è la colossale creazione di liquidità delle grandi banche centrali per contenere l’ultimo caos e il rischio di collasso dei mercati. Solo dall’inizio della crisi dei subprime, gli istituti di emissione di Stati Uniti, area-euro, Giappone, Cina e Gran Bretagna insieme hanno raddoppiato le dimensioni dei loro bilanci da un totale di 7000 miliardi a 14 mila miliardi di dollari (secondo dati di Rbs). È stata una produzione di moneta «fiduciaria» — sostenuta dalla credibilità delle istituzioni, non da riserve in oro o altre materie — pari a tre volte e mezzo il fatturato italiano. È questa l’alta marea che ha sì impedito agli Stati Uniti e all’Europa di affondare, ma poi ha alzato qualunque barca sui mercati finanziari. Anche le più malmesse. Perciò i tremori di questi giorni sono iniziati non appena la Federal Reserve ha iniziato a frenare il ritmo al quale espande il proprio bilancio: nel 2013, aveva creato e immesso sui mercati mille miliardi di dollari, ma solo ora gli investitori iniziano a temere che i prezzi di Borsa siano sganciati dalla realtà.
Le grandi banche centrali sempre di più trovano cinghie di trasmissione in istituti privati come JpMorgan, Bank of America o Citigroup. Il bilancio di ciascuno di loro ormai si avvicina o supera il Pil dell’Italia, perché tutti prendono in prestito dalla Fed, dalla Bank of England o dalla Bank of Japan a costo zero e reinvestono in Italia, in Grecia, in Spagna o nel mondo emergente le migliaia di miliardi che sollevano qualunque cosa galleggi. Così negli ultimi vent’anni il volume del credito in America è cresciuto cinque volte più dell’economia, fino a valere un multiplo del Pil. Ad ogni crash degli ultimi vent’anni la Fed ha risposto alimentando un’altra bolla. Ma più il mondo dipende da sempre nuova moneta «fiduciaria » per sopprimere i sintomi di crisi ricorrenti, più il prossimo risveglio rischia di essere doloroso. L’Italia è un vaso di coccio in questa dinamica. Eppure anziché rafforzarsi per resistere, ridurre il debito e così emanciparsi dall’esigenza di trovare sempre nuovi creditori, molti nel Paese preferiscono abbaiare alla luna: tutta colpa della «speculazione globale».


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