Come cambiano ora le leggi sulle droghe
Mercoledì 12 febbraio la Corte Costituzionale ha bocciato la legge cosiddetta “Fini-Giovanardi” – ovvero il decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 21 febbraio 2006, n. 49 – che dal 2006 disciplina l’uso delle sostanze stupefacenti. Non sono ancora chiare le conseguenze per la legislazione italiana, né che cosa succederà ai molti detenuti che in Italia sono in carcere in base alle sanzioni previste da quella legge.
Che cosa ha deciso la Corte Costituzionale
Cosa importante da sapere: la Corte Costituzionale non ha bocciato la Fini-Giovanardi in base al suo contenuto. La violazione della Costituzione che è stata riscontrata riguarda infatti l’art. 77, quello che regola la procedura di conversione dei decreti-legge: in altre parole, la Fini-Giovanardi è stata bocciata per come è stata approvata e non per quello che stabiliva. Fu infatti inserita per la sua conversione in legge in un provvedimento che si occupava di un sacco di cose diverse, e che nel titolo metteva insieme il finanziamento alle Olimpiadi invernali di Torino e le “disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi” (il governo Berlusconi mise sul provvedimento la questione di fiducia). La cosiddetta Fini-Giovanardi era, in concreto, un ampio emendamento che occupava in effetti gran parte del testo e che costituiva l’articolo 4 della legge.
Quale legge torna in vigore ora
La legge approvata dal governo Berlusconi modificava pesantemente il Testo Unico 309 del 1990, che fino ad allora era la legge nazionale in materia di droga. Era la cosiddetta “Iervolino-Vassalli”, dai nomi dei suoi due promotori: l’allora ministro per gli Affari Sociali Rosa Russo Iervolino, della Democrazia Cristiana, e l’allora ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, socialista. Il presidente del Consiglio dei ministri era Giulio Andreotti (al suo sesto governo). Un contributo importante a quella legge era stato dato da Vincenzo Muccioli, il fondatore della controversa comunità di recupero di San Patrignano.
Al momento della sua introduzione la Iervolino-Vassalli era stata molto criticata e accusata di essere “liberticida”, come ricorda oggi la stessa promotrice in una intervista con il Corriere. Aveva poi subito, negli anni, diverse modifiche: le più importanti risalgono tutte ai primi anni Novanta. La prima fu una sentenza della Corte Costituzionale del 1991, che precisava che non bastava avere una quantità di stupefacenti di poco superiore alla “dose media giornaliera” per far scattare il reato di spaccio. La seconda, invece, fu un referendum abrogativo promosso dai radicali e votato nell’aprile 1993, in cui venne abolita – con il 55 per cento dei favorevoli – la sanzione del carcere per l’uso personale di droga (fu votata in quella occasione anche l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, altro tema tornato di grande attualità negli ultimi mesi).
Quali sono le differenze tra le due leggi
La Iervolino-Vassalli stabiliva che l’uso personale di droga – sia “leggera” che “pesante” – fosse un illecito, ma prevedeva sanzioni soprattutto di tipo amministrativo: per la prima volta era previsto un avvertimento del prefetto, a cui seguivano dalla volta successiva provvedimenti (sempre del prefetto) come la sospensione della patente o del passaporto, per un massimo di tre mesi. Dopo le due volte entrava in gioco l’autorità giudiziaria, con una serie di sanzioni che arrivavano al massimo a tre mesi di carcere (fu la parte di norma abolita con il referendum del 1993).
La produzione e lo spaccio invece erano sanzionate con pene diverse e si prevedeva la reclusione: ma i periodi variavano sia in base alla distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, sia in base alla quantità coinvolta, se “modica” o più ingente. La distinzione tra “leggere” e “pesanti” era fatta in base ad apposite tabelle pubblicate dal ministero della Salute. Le pene previste per lo spaccio delle droghe leggere – diminuite nel caso della “lieve entità” – erano tra i due e i sei anni di carcere, più una multa. Per le droghe pesanti si andava invece dagli 8 ai 20 anni. Le misure alternative, anche terapeutiche, come l’affidamento in comunità, erano previste per le condanne fino a quattro anni.
La legge Fini-Giovanardi, invece, aveva abolito la distinzione tra droghe leggere e pesanti (unificando le tabelle del ministero della Salute) e aveva portato a un inasprimento delle sanzioni. Nel caso di condanna per spaccio e traffico di stupefacenti le pene andavano da 6 a 20 anni: in concreto, la pena minima per un piccolo spacciatore di marijuana si alzava dai due ai sei anni e prevedeva dunque quasi certamente il carcere. Le quantità minime per uso personale, fissate da una commissione del ministero della Salute, erano relativamente basse: per esempio 500 milligrammi di principio attivo per la cannabis, cioè circa 5 grammi lordi. La denuncia per spaccio non era comunque automatica e lasciava al giudice margine di manovra, e anche al momento della sua introduzione ci furono polemiche tra chi sosteneva che si potesse “andare in carcere per uno spinello” e chi invece diceva che al giudice venisse lasciata troppa discrezionalità.
Che cosa succede ai detenuti
La pronuncia della Corte Costituzionale è stata annunciata in un comunicato di poche righe (scaricabile qui), ma non è stata ancora depositata con le sue motivazioni: di solito ci vuole circa un mese, e solo allora le norme saranno effettivamente abrogate.
Le sentenze dei processi in via di conclusione in questi giorni verranno quindi probabilmente rinviate dai giudici, in attesa delle motivazioni. Per chi è già in carcere per la Fini-Giovanardi, bisognerà avviare dei procedimenti legali caso per caso, come spiega oggi Giovanni Bianconi sul Corriere:
Per loro [chi ha già avuto una condanna definitiva] bisognerà avviare, caso per caso, un «incidente di esecuzione» che ridetermini la pena in base alle vecchie norme ora ripristinate. Solo quando si avrà un quadro chiaro di queste posizioni si potrà capire l’incidenza della decisione di ieri sulla popolazione carceraria.
In queste ore circolano stime di 10 mila detenuti interessati, ma è ancora presto per avere un’idea dei numeri precisi. Secondo il Quarto Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi – uno studio dell’impatto della legge sulla popolazione carceraria italiana curato in primo luogo dall’Osservatorio Antigone, un’associazione per la difesa dei diritti dei detenuti – nel 2012 gli ingressi totali in carcere erano stati 63.020, di cui 20.465 per violazione del solo art. 73 (quello che punisce la detenzione nella legge del 1990, modificata dalla Fini-Giovanardi): il 32,47 per cento. Al 31 dicembre 2012, prosegue il Libro Bianco, i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 65.701, di cui 25.269 a causa dell’art. 73, pari al 38,46 per cento.
È opinione comune che la legge Fini-Giovanardi abbia contributo in maniera decisiva al sovraffollamento delle carceri italiane degli ultimi anni, insieme ad altre norme di quegli anni come la cosiddetta ex Cirielli, che inasprisce le pene per i recidivi. È stata inoltre molto criticata per la mancata distinzione fra droghe leggere e droghe pesanti e per la sproporzione delle pene rispetto alla pericolosità delle condotte da reprimere.
Foto: DESIREE MARTIN/AFP/Getty Images
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